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Malpractice nell'esercizio dell'attività psicologica di C.T.P.

Luca Degasperi


1. Premessa.

Al celebre architetto e designer italiano Gio Ponti viene attribuito questo aforisma: il committente è quel soggetto senza il quale l’architettura non si può realizzare, e con il quale l’architettura non si può realizzare. Un’affermazione paradossale - ma limpida ed onesta - rispetto ai vincoli di condizionamento che il libero pensiero, tecnico o creativo che sia, deve subire, e che intendiamo qui utilizzare nella sua veste di presentazione di un ambito differente, quello dell’intervento psicologico nelle consulenze tecniche di parte (C.T.P.) quale intervento specialistico per e nonostante il committente. Utilizzeremo questo termine non solamente per definire la persona fisica, ossia il soggetto rappresentato, ma anche l’intero scenario di committenza, ovverosia la configurazione reticolare dentro cui è calato lo psicologo di parte all’interno delle C.T.U. di ambito civile nel diritto di famiglia: i caratteri strutturali di tale scenario, questa è la tesi sostenuta, acquisiscono potere di interferenza rispetto al libero esercizio professionale, e fino a determinare una rete di vincoli, di pressioni, di richieste implicite o esplicite, di aspettative che sembrano superare di gran lunga un mero rapporto di subordinazione (fattore di potenziale limitazione dell’autonomia professionale) dovuto alla transazione economica, per entrare nei fenomeni di influenzamento o nelle distorsioni di ruolo.

Ci si occuperà quindi dell’analisi delle cosiddette malpractice, ossia di quelle condotte professionali che deviano dai modelli riconosciuti per funzionalità - le buone prassi - connotando la realtà effettiva, quella nel registro degli accadimenti e nell’espressione di gravi disfunzioni. Quest’ultime possono agire tramite pensiero distorsivo, disconoscimento, manipolazione, acting out; possono presentare indicatori di conflitto aggressivo o di contrapposizione aprioristica con la controparte, oppure di adesione collusiva, suggestiva o identificativa con la parte rappresentata; possono muoversi secondo una condotta sregolata e confusiva oppure, su un altro versante, secondo i dettami di una strategia raffinata quanto invisibile ad un primo sguardo, con modi surrettizi e ingannevoli o con il tenore eclatante e scenografico, istrionico o supponente che svuota i significati e colloca le azioni degli psicologi sul piano delle simulazioni, delle manipolazioni e delle falsificazioni, oppure delle ingenue supposizioni prive di costrutti a validità scientifica.

Va detto, il percorso di formazione degli psicologi in quest’ambito, esattamente come avviene in tutte le discipline, concerne soprattutto lo studio di modelli dotati di validità, esaustività e chiarezza dei riferimenti, e solitamente ci si muove verso il meglio, ossia in una tensione produttiva e propositiva a carattere maturazionale, in direzione favorevole: il C.T.P. potrebbe interpretare il suo ruolo sostenendo psicologicamente la parte rappresentata, valorizzando le sue risorse e rendendole esplicite e fattive, favorendo la piena e costruttiva comprensione dei fenomeni peritali anche in chiave maturazionale, quando non terapeutica, contribuendo a rendere esplicito il pensiero del proprio assistito e a tradurlo in formule funzionali ai sistemi valutativi, oltre che comunicativi, e sempre distinguendo tra realtà psicologica e realtà fattuale. O favorendo la predisposizione di un campo neutro, nel quale più facilmente si possano verificare negoziazione con l’altro genitore e coordinamento di mediazione a favore dei figli tramite elaborazione dei fattori conflittuali, come spesso richiesto dai quesiti del giudice. E molto altro ancora, su un versante favorevole che riscontriamo nella correttezza operativa di molti CC.TT.PP. e nelle buone prassi degli psicologi.

Quest’articolo si occupa di un processo inverso, cioè della rappresentazione dei fenomeni disfunzionali che potrebbero presentarsi e che, di fatto, non costituiscono solamente delle ipotesi fantasiose, frutto di un sistema pittorico a tinte fosche e a colori guasti, ma dei dati di realtà. L’osservazione si sposta dagli oggetti della C.T.U. psicologica (dinamiche separative di coppia, squilibri intrafamiliari e soggetti che li agiscono o li subiscono) e dai modi per analizzarli (processi inferenziali, metodologia valutativa, tassonomia interpretativa, etc.) alla consulenza stessa e ai consulenti, colti nei modi e nelle azioni effettive, non più nella letteratura delle indicazioni teoriche. Quanto qui riferito riguarda quindi l’esperienza diretta e costituisce una elencazione fenomenica, compilata tramite presa visione di fatti reali: rispetto ad essi vengono proposte delle aggregazioni in modelli descrittivi e esplicativi, teorizzando quindi degli elementi strutturali che possano favorire la comprensione di questi avvenimenti, e non limitandosi a considerare quest’ultimi come episodiche condotte negative da parte di singoli professionisti. Questa visione riguarderebbe un mero assetto puntiforme, con banali, isolati e sporadici “scivoloni di stile”, errori accidentali, piccole scorrettezze e cantonate contingenti, così come avviene nel più usuale comportamento umano: al contrario, proprio la ripetitività di quanto descritto suggerisce un ragionamento più approfondito, considerando tali eventualità non solo come marginali inciampi o casuali trabocchetti di una specchiata vita professionale, ma come traiettorie comportamentali non solo verosimili e possibili, iscritte nel registro degli eventi, ma probabili. Si tratta pertanto di abbandonare per un momento quei sistemi di idealizzazione che, anche nella nostra categoria, possono ingenuamente essere scambiati per reale tutela del buon funzionamento, ed abbandonare al contempo le difese di ambito denegatorio, vero vulnus, lo sappiamo, di ogni forma di disconoscimento della realtà.

Potremmo dire che tali eventi negativi siano statisticamente marginali, e che il solo fatto di occuparcene, e magari di enfatizzarli mentre li documentiamo o li esploriamo, dando ad essi una centralità che non meritano, può ledere l’immagine cristallina di una corretta pratica professionale, ma l’intenzione è quella opposta: si vuole qui proporre una disamina delle falle, dei punti di cedimento, delle azioni improprie, allo scopo di contribuire alla costruzione di sistemi di maggior correttezza, all’affinamento di criteri di analisi del funzionamento professionale, all’identificazione degli strumenti di autotutela rispetto ai rischi effettivi. Concettualmente, la teoria del buon funzionamento e del corretto posizionamento dello psicologo nell’esercizio della professione continua a rappresentare il punto di riferimento, ma - evocando il falsificazionismo di Popper - ciò non dovrebbe indurci il timore di constatare il resto, visto che, peraltro, “il resto” si manifesta agli occhi, ossia si presenta nella pratica operativa, talvolta con disarmante regolarità e chiarezza.

“Non c’è stato mortale che non si possa di volta in volta elogiare o deprecare”, scriveva Sofocle duemilacinquecento anni prima di quanto il DSM, a proposito della scala del funzionamento difensivo, indica in riferimento alla scissione versus la capacità di integrare in immagini mentali unitarie qualità positive e negative di sé e degli altri. Possiamo quindi assumere l’ipotesi che le eventuali malpractice non appartengano solamente a chi detiene un registro di funzionamento abitualmente scorretto, inaffidabile, improprio - attribuzione che ci permetterebbe di distanziare psicologicamente tali fenomeni, ossia di contestualizzarli altrove, e in sostanza nel comodo stereotipo del collega inadeguato - ma si presentino anche in chi conduce una pratica ragionevolmente seria, affinata in anni di professione e in plurime occasioni formative: si tratta in sostanza, e proprio all’interno di una logica integrativa, di considerare tali espressioni professionali disfunzionali non tanto come un monstrum eccezionale, irrilevante per frequenza o ascrivibile a singoli soggetti caratterizzabili per malfunzionamento (sottostima tramite negazione, proiezione, razionalizzazione, rimozione e minimizzazione), quanto piuttosto di percepirne la portata endemica, ossia la facile diffusione in una serie di comuni atteggiamenti, di ripetute facilonerie o di sistematiche disattenzioni a cui segue spesso una rapida autoassoluzione, catalogando il tutto nell’archivio degli errori da dimenticare. Così, però, pare non sia, quanto meno registrando la persistenza e la ripetitività, talvolta addirittura la prevedibilità, di talune manifestazioni, descritte in questo testo e in cui, si presume, molti ritroveranno dei frammenti di esperienze vissute nei collegi peritali.

Questo articolo non affronta un aspetto quantitativo, con computo dei livelli di diffusione di tali pratiche scorrette, ma si propone di sollecitare l’attenzione verso manifestazioni che, quando aggregate in insiemi comportamentali, sembrano costituire - questa è l’ipotesi trattata - dei dati ricorrenti, e pertanto degli oggetti con cui non possiamo evitare il confronto: tutte le situazioni narrate provengono dall’esperienza diretta dell’autore di questo articolo - e sono quindi documentabili - e dal confronto trentennale con i colleghi.


2. Alcuni accadimenti.

Ogni riferimento a circostanze reali non è puramente casuale, ossia, come detto, non verranno elencati episodi ipotetici ma ci si baserà solamente su fatti avvenuti. In primo luogo un dato di posizionamento visibile nei primi incontri: il C.T.P. può presentarsi esprimendo una piena e conclamata appartenenza alla visione portata dal suo assistito, ossia ad aderire in modo totalizzante, anche con rinuncia al proprio apparato critico, alle tesi di parte. L’intensità di tali fenomeni di credo e convinzione paiono indicare un portato identificativo, con adesione incondizionata alla “realtà” dei fatti narrati dal proprio assistito, e fino ad assumere convincimenti profondi in un testo indubitabile, sostenuto di fronte al C.T.U. in termini di certezza o di apparato dogmatico a seguito di una prima, pare preconfezionata, distribuzione dei ruoli. Il C.T.P. ripone in questi casi una fiducia acritica e antidialettica nelle ricostruzioni effettuate dalla parte rappresentata, nelle vicende riferite, nello svolgimento delle scene narrate, e può porsi quale strumento di amplificazione e consolidamento della verità indubitabile, sia essa relativa ad una particolare dinamica di coppia, ad un evento traumatico che ha investito i minori, ad un atteggiamento di una o dell’altra parte, ed infine in un sostanziale avallo di tutto ciò quale ricostruzione fattuale, con conseguente severa attribuzione di ragioni e di torti tramite splitting. È ben noto quanto quest’ultima modalità appartenga usualmente ai soggetti periziandi, che giungono di fronte al giudice, e secondariamente di fronte al consulente tecnico, con la pretesa di poter affermare le proprie ragioni convincendo qualsiasi ascoltatore, e senza considerare invece - cosa che forse capiranno nel corso dell’iter peritale - la complessità dell’analisi psicologica del campo relazionale, dove i processi interpersonali acquistano un’articolazione a più livelli che richiede lo specifico della lettura psicologica: tale dovrebbe essere il paradigma di riferimento del C.T.P. in quanto anch’egli psicologo, refrattario pertanto a visioni riduttive, specie se sostenute da una soggettività che può apparire ingenua ed autocentrata, se non supponente, a ipersemplificazioni o a unilateralità nella lettura dei sistemi relazionali.

Tale deriva nel malfunzionamento dello psicologo assurge in tali casi a pretesa della certezza, ossia dell’affermazione apodittica espressa con perentorietà e quale dato inoppugnabile, che subito si scontra, però, con la speculare evidenza altrettanto inconfutabile sostenuta con lo stesso vigore dal collega di controparte: l’aut aut converge sul chi ha ragione. Si tratta della naturale dialettica delle opinioni all’interno di un contesto di sano confronto, utile a ridurre il margine di errore in cui il consulente del giudice potrebbe incorrere? Il C.T.U., nella sua posizione baricentrica (che concettualmente non significa né giusta né vera), può cogliere con facilità disarmante la disposizione degli schieramenti, oltre che la frequenza con cui essi si collocano fin dal primo colloquio all’interno della cornice della propria parte: qualora si procedesse ad un’analisi statistica, tramite raccolta dati esperienziali dei CC.TT.UU., sarebbe impietoso ed ingiusto preconizzare una distribuzione al cento per cento delle rispettive convinzioni dei CC.TT.PP. nell’alveo della parte rappresentata, ma, si presume alla luce dell’esperienza, può essere che il dato non si discosterebbe di molto. Volendo qui prescindere dalle motivazioni, assai umane e che pertanto riguarderebbero anche la nostra categoria, che concernono la malafede e pertanto la semplice tendenza ad inseguire il profitto, possono essere presi in considerazione quei fenomeni di adesione indifferenziata su base di suggestione, di iniziale labeling in base alle prime informazioni ricevute quando il C.T.P. ha incontrato il futuro periziando nel proprio studio, di distorsione cognitiva per cui, attraverso la riproposizione di bias interferenti, la narrazione della realtà diviene la realtà stessa, e la codificazione dei dati entra nelle spirali di autoconvalida: fenomeni ben noti.

Ma se le cause di tali distorsioni/interpretazioni appartengono alle teorie della percezione, della rappresentazione, dell’alterazione e della suggestionabilità, e se ciò determina, come si evidenziava poc’anzi, una diffusione di assoluta rilevanza, con appartenenza ai rispettivi schieramenti, occorre aggiungere una considerazione sulle modalità con cui esse talvolta si esprimono, cioè sul registro espressivo: ovvero con intensità, radicalità, incrollabilità, intolleranza dogmatica. Manifestazioni che inducono in primo luogo una riflessione che attiene alla deontologia, e che rileva una tendenza possibile da parte del C.T.P. ad utilizzare nei confronti dei periziandi di controparte gli strumenti dell’enfasi ipercritica, dello slancio veemente e “gridato”, della foga polemica e dell’iperbole diagnostica, dell’accaloramento che difficilmente può essere associato alla pratica clinica psicoterapeutica o a quella diagnostico-valutativa, esercizi professionali a cui ci si avvicina con senso di moderazione, di grande responsabilità e cautela visti i contenuti affrontati e la loro incidenza sulle strutture psicologiche dei soggetti interessati (a cui lo psicologo ha accesso tramite i propri strumenti), di misura e di regolatezza specie nell’ambito dei conflitti familiari, dove i genitori andrebbero accompagnati verso una maggior capacità di mentalizzazione anziché di acting out. Ciò è quanto indicato, peraltro, nel Codice Deontologico degli Psicologi Italiani (art. 3): Lo psicologo è consapevole della responsabilità sociale derivante dal fatto che, nell’esercizio professionale, può intervenire significativamente nella vita degli altri (…) pertanto deve prestare particolare attenzione ai fattori personali, sociali, organizzativi, finanziari e politici, al fine di evitare l’uso non appropriato della sua influenza, e non utilizza indebitamente la fiducia e le eventuali situazioni di dipendenza dei committenti e degli utenti destinatari della sua prestazione professionale. Lo psicologo è responsabile dei propri atti professionali e delle loro prevedibili dirette conseguenze”.

Il lessico psicodiagnostico costituisce un’indubbia e ben avvelenata freccia a disposizione dello scontro, considerando specialmente come certa terminologia, vista l’appartenenza a determinati campi semantici socialmente riconosciuti come critici, se non temibili, suggerisca anche ai non specialisti (giudici, avvocati, la stessa controparte) delle vere e proprie suggestioni negative tramite stigma: un semplice riferimento al disturbo paranoide di personalità, alle strutture narcisistiche maligne, al rischio di agiti dirompenti, alla manipolazione o alla mitomania, con accenno al bugiardo patologico, sono solo alcuni degli esempi del vasto strumentario a disposizione della logica del discredito, sempre correlata ad un esercizio diagnostico a carattere iperbolico, accentuato, amplificato nella sintomatologia sfavorevole colta dal C.T.P. nella controparte, e talvolta rinforzato dai modi della descrizione, ossia da sapienti pennellate. Quest’ultime potrebbero rimanere rigorosamente circoscritte ad una sobria analisi tecnico-specialistica, esposta sulla base del codice scientifico, ma ciò non sempre pare accadere. Se consideriamo la valutazione del C.T.U. quale elemento di riferimento, vista la sua più facile (comunque non certa) imparzialità equanime, si constata nel C.T.P. con una certa frequenza l’ampio utilizzo di criteri di aggravamento in riferimento alla controparte (maggior durata e pervasività della sintomatologia, maggior frequenza di eventuali episodi acuti, accentuazione della maladattività, ecc.), e speculare alleggerimento (maggiore adattività, riscontri favorevoli, adeguatezza professionale e sociale, ecc.) rispetto al proprio assistito: come sopra esposto, la distribuzione dei pareri - ancorché assai convinti e finalizzati alla costruzione di un teorema nosografico - segue un disegno a dir poco schematico e prevedibile, oltre che ben argomentato sulla base della teoria psicologica più opportuna, ossia confacente allo scopo del momento. Tali argomentazioni divengono quindi speciose, ossia contengono un’apparente validità in quanto si riferiscono a modelli psicologici riconosciuti, ma si rivelano inconsistenti visto il loro utilizzo in un contesto improprio, aderendo ad un sistema puramente estetico ed appariscente: si tratta della parabola di decadimento dei più raffinati sofisti verso l’arte ingannevole dell’eristica, vuoto esercizio della voce. Solo per fare un esempio, la vicinanza di un genitore ai figli riguarda un attaccamento sicuro e organizzato, base necessaria per la successiva autonomia nello sviluppo, oppure costituisce uno strascico improprio di componenti simbiotiche, da cui il sequestro emotivo e relazionale e l’impedimento alla crescita? Valorizzare o stigmatizzare una situazione osservata risulta assai semplice, attingendo di volta in volta a Bowlby o Mahler, a Winnicott o Kernberg, quando più confacente. Quanto tale fattore di distorsione descrittiva vada ad inficiare presso le aule dei tribunali la credibilità professionale degli psicologi, che apparirebbe così sottoposta alle astute ed ineleganti regole della convenienza, non è argomento della presente trattazione, ma costituisce ugualmente un dubbio pertinente.

Talvolta, infatti, la terminologia utilizzata negli interventi verbali o negli scritti di parte esula del tutto dal frasario tecnico, per attingere a quello comune dell’enfasi screditante o, sull’altro versante, di esaltazione. Vediamo qualche esempio: nel primo caso, e sempre nel contesto della definizione della controparte, la definizione attribuita ad una signora è stata quella di “madre pericolosa”, “sciagurata” l’azione di un padre, “insopportabili bugie” le dichiarazioni di una madre, “un marito assente”, e di lui “che roba [sic], rimane ben poco da salvare”, “un goliarda”, “furbastro”, “pagliacciate da giullare” le azioni di recupero della relazione poste in essere da una madre con i figli, mentre nel secondo caso, nella definizione del proprio assistito, “una brava persona”, “un vero uomo”, “un’eroina”, “cornuta e mazziata”, “piacevole”, “una gran donna”. E ciò solo per riferire alcuni esempi. Ci si chiede a quale lessico clinico e a quale paradigma psicodiagnostico appartengano espressioni di tal fatta vista l’aggettivazione generica e antispecialistica utilizzata, che prelude spesso ad una spiccata attitudine contrappositiva nell’intera relazione di C.T.P. e si caratterizza quale urto dialettico, irrompendo nella situazione valutativa e nell’assai complesso tentativo, spesso promosso dal C.T.U. in quanto esplicitamente richiesto dal giudice, di ricostruzione di lealtà collaborativa tra i genitori. La terminologia dilettantistica può apparire innocua proprio per la sua superficialità, mentre, al contrario, riteniamo possa essere particolarmente dannosa in ragione della sua facile comprensibilità e immediatezza nella costruzione dello stereotipo: quest’ultimo, come noto, basa la sua efficacia proprio sulla grossolanità e sulla riduzione del pensiero.

Spesso, le elencazioni di attribuzioni negative (che talvolta prendono l’avvio da elementi realistici) vengono maneggiate concettualmente come oggetti decontestualizzati, al di fuori dei pattern comportamentali generali, e divengono “parte per il tutto”: in altre parole, si assiste in questi casi a sistemi sillogistici deboli, ossia a concatenazioni causali scorrette, nelle quali a partire da un elemento psicologico oggettivamente riscontrato ne vengono forzatamente fatti derivare altri, a sistemi abduttivi o inferenziali erronei in quanto privi di nessi, o alla confusione tra causalità possibile, specifica di un quadro diagnostico, e causalità probabile, linea di confine assai labile e pertanto facilmente soggetta a manipolazione concettuale. E ad ogni modo, l’assetto che si viene a determinare è quello polarizzato: su ciascuno dei periziandi viene operata dai rispettivi CC.TT.PP. un’azione simmetrica, con processi di svalutazione e di idealizzazione speculari tra loro.

Aggiungiamo che tale azione può essere ulteriormente inquinata dall’azione informativa da parte del consulente verso il proprio assistito, reso edotto delle domande che gli verranno poste ad esempio nella Adult Attachment Interview, dei criteri di analisi delle parental skills, delle aspettative del C.T.U. o dei test a cui verrà sottoposto: emblematico, a questo proposito, come compaiano frequentemente da parte dei periziandi degli artefatti - tanto positivi quanto decontestualizzati - riferimenti all’altro genitore, ad esempio inserendolo opportunamente nel corso del disegno congiunto assieme al figlio o nominandolo in senso favorevole (“Che bella vacanza hai fatto con la mamma/il papà!”) nel corso dell’osservazione dell’interazione con il bambino. Nonostante tali pratiche vengano universalmente stigmatizzate in quanto scorrette[2], nella pratica professionale si incrocia qualcuno tra i colleghi che, di fatto, dichiara apertamente di muoversi in tal senso. Un’assoluta minoranza, com’è ovvio e per quanto attiene alla percezione dello scrivente, ma in grado di alterare potentemente i sistemi di fiducia e colleganza, oltre che di inficiare fin dalle radici le valutazioni peritali a cui presenziano.

Talvolta, ancora, l’insistenza conflittuale dei consulenti supera quella dei soggetti sottoposti a valutazione, con un’enfasi ipercritica che non viene neppure riscontrata nelle parti. Esse possono aver elaborato la loro rabbia raggiungendo sistemi di mediazione più evoluti, ed invece lo psicologo, per via dei suoi strumenti dialettici, diagnostici, descrittivi, continua ad imprimere un’accelerazione incongruente rispetto alla parte rappresentata tramite potenziamento della vis polemica. Capita il caso, ad esempio, che nel corso delle operazioni peritali l’atteggiamento moderato di un periziando costituisca una variabile preziosa nella costituzione di nuovi e più evoluti accordi di sistema familiare, e che tale sua predisposizione non sia frutto di mera strategia quanto piuttosto di un sincero stile conciliante e collaborativo, ben inserito nel profilo personologico tramite configurazioni egosintoniche ed a pieno sostegno delle sue competenze genitoriali e del rispetto della bigenitorialità: elementi che lo accreditano rispetto alla qualità della sua presenza funzionale. Viceversa, il tenore utilizzato dal suo C.T.P. si può invece caratterizzare per aggressività e distruttività nell’utilizzo dei sistemi di giudizio, con una logica esorbitante rispetto al lavoro integrativo di ottica bigenitoriale.

Si impone all’evidenza, in tali casi, un dubbio fondamentale, ossia quanto il periziando stesso sia consapevole della portata dei contenuti espressi dallo psicologo che lo rappresenta, quanto li sottoscriva scientemente e quanto li avvalori con razionale deliberazione, dato che tali argomentazioni, di fatto, lo danneggiano inserendolo nuovamente nella spirale della polemica, oltre che conducendo sulla sua persona nuovi dubbi in merito alla sincerità del suo atteggiamento conciliante. Ci si chiede inoltre a quale scopo riattivare un pensiero categorico e irriducibile, suggestivo di rancore, astio, livore, risentimento, ossia sentimenti disfunzionali e solitamente valutati in termini psicologici quali variabili critiche e interferenti, quando non elementi di induzione alla psicopatologia d’ambiente relazionale. Un possibile e inesauribile serbatoio dell’aneddotica contrappositiva, sterile, intransigente e unilaterale nella visione: i riferimenti presentati dal C.T.P. nel suo elaborato scritto (osservazioni alla bozza) possono presentare questa distorsione per accentuazione, e fino a ricollocare il confronto su un livello di scontro ben superiore quando il lavoro di mediazione e di negoziazione attuato nei colloqui congiunti con le parti aveva raggiunto dei risultati positivi in termini di riduzione del conflitto.

Se appare comprensibile, per quanto non condivisibile, l’appiattimento dello psicologo sui temi radicali presentati dal proprio assistito, fornendo loro un avallo autorevole, meno semplice da decodificare risulta quest’ultima configurazione descritta: perché collocarsi addirittura oltre il livello di rabbia delle parti, e perché far deflagrare nuovamente lo scontro, quando questo è stato ricomposto? Occorre interrogarsi, probabilmente, sull’attivazione di nuclei inelaborati, in qualche misura controtransferali, del consulente, e sulla sua difficoltosa gestione della cosiddetta “giusta distanza”, tanto che talvolta si percepisce una partecipazione personale a carattere implicato; oppure ipotizzare che lo psicologo agisca tramite identificazione proiettiva delle modalità appartenenti in realtà al periziando; o può essere utile riconsiderare la portata concettuale della posizione schizoparanoide di kleiniana memoria[3]; o, ancora, ad identificare i nuclei del narcisismo personale che conducono ad una sorta di Machtville, o volontà di potenza, assai comune nelle vicende umane. Ciò può essere rilevato anche nel confronto tra i due CC.TT.PP., che in talune occasioni entrano in un loro conflitto dialettico assai serrato, incalzante e intransigente, in termini paradossalmente più aspri rispetto alle dinamiche padre – madre, e fino a quando il C.T.U. deve infine chiedere ai colleghi di assumere un atteggiamento più consono, o arriva a censurare gli eccessi verbali o a richiamare il rispetto dei rapporti di colleganza, e il tutto davanti allo sguardo stranito dei periziandi. Ricordo ancora il commento caustico di uno di loro, “pensavo che i problemi li avessimo noi…”.

Assai poco edificante e rispettoso della professione risulta infatti un eccessivo impegno del consulente del giudice nel dirimere i contrasti tra colleghi, specie qualora la litigiosità su tale livello tecnico superi, come detto, quella delle parti. Si tratta di una sorta di cortocircuito paradossale, disordinato e incongruo, con un’entropia comunicativa disarmante considerandone la fonte e ricordando inoltre ciò che compete al ruolo degli psicologi, teoricamente indirizzati da competenze, professionalità e attitudini affinate tramite studio o training personale verso una maggior funzionalità dei sistemi relazionali, non certo verso la sollecitazione dell’indisponibilità.

Fino a che punto tali sistemi ostativi possono essere reiterati, e a quale prezzo? Intuiamo facilmente il rischio che, nei sistemi di discussione interni al collegio peritale, gli schemi di ripetizione possano aggregarsi generando risposte sempre più automatiche: caparbietà, scarsa disponibilità verso pensieri alternativi, oppositività, rigidità, possono spingere all’automatismo ripetitivo che può giungere a coinvolgere per suggestione le parti, e ad una reiterazione polemica che cristallizza il “testo” in forma sempre più indubitabile ed inflessibile, distante dalla modalità argomentativa. Ciò può condurre, nei casi estremi, verso il cosiddetto “scisma” rappresentativo, ossia verso la tendenza all’annullamento dell’altra figura genitoriale tramite grave svalutazione: come sappiamo, ciò comporta un rischio psicologico di grado elevato, in quanto, qualora l’esclusione/abolizione di tale figura si consolidasse, ostacolando nel campo relazionale complessivo il contatto psicologico con il genitore reale, si configurerebbe un danno ai processi di identificazione dei bambini, inducendo in loro, come da letteratura sull’argomento, una spirale confusiva (labilità nei confini della realtà oggettiva, sfiducia nella memoria), depressiva (sentimenti di perdita) o persecutoria (conferma delle tematiche angoscianti e della distruttività).

Evidente, pertanto, come il modo della trattazione all’interno del percorso peritale possa non soltanto generare un sistema improduttivo, con una valutazione distorta a causa dei numerosi fenomeni di interferenza, ma anche in qualche modo iatrogeno, generando ulteriore disfunzionalità: se la pregiudiziale simmetrica finisce per codificare il conflitto, ossia per confermarlo, si possono creare dei danni irreversibili anche in termini evolutivi. E lo stesso C.T.P. può concorrere a tale processo di codificazione utilizzando solamente strutture antinomiche, inseguendo la concezione superficiale della vittoria contingente - un genitore sull’altro - e della logica meramente avversariale. Paradossalmente, se viene chiesta al C.T.P. una maggior moderazione dei toni, questi può replicare denunciando la coartazione delle opinioni, come se venisse ostacolato il diritto al contraddittorio: in realtà, è proprio la dialettica funzionale (necessaria al C.T.U. in termini di visioni alternative e di marginalizzazione dell’errore) a risultare coartata dai modi dello scontro.

I costrutti semantici che riscontriamo in tali occasioni sono perlopiù quelli specifici della predicazione bellica, a partire dalla demonizzazione totalizzante del “nemico”: in questo caso, si realizza fin dalle prime battute non un campo relazionale di ricerca, ma uno schieramento militarizzato con esposizione di insegne e con atti di sopraffazione (verbale) intimidatoria gli uni verso gli altri. Certezze e perentorietà sono i primi elementi della retorica dello scontro, spesso fondata su un ricorso compulsivo agli atti del fascicolo come ad una fonte di verità fattuale, e non come una ricostruzione anch’essa viziata dalla soggettività di chi l’ha effettuata: quando gli psicologi citano gli avvocati, facendo ricorso ad una presunta realtà dei fatti, o quando utilizzano impropriamente terminologia giuridica e riferimenti ai codici paiono rinunciare alla propria identità/specificità culturale ed epistemologica per scimmiottare (senza averne i mezzi) altre professioni.

Ritornando agli eventi concreti, può succedere al C.T.U. di dover censurare nel C.T.P. gli eccessi verbali, la mimica di disaccordo, lo stupore sovra-enfatizzato o le espressioni derisorie o di grave indignazione, o la tendenza ad interrompere, dovendo tutelare la controparte verso cui tali manifestazioni aggressive, e pertanto disturbanti, sono indirizzate e consentendole di riacquistare la serenità necessaria alla propria espressione: CC.TT.PP. che sbuffano rumorosamente, che si spazientiscono, che picchiano i piedi sul pavimento, che passeggiano per la stanza per sostenere la propria oratoria… Fattori a cui gli psicologi prestano attenzione quali fenomeni interferenti: va detto, peraltro, che l’analisi psicologica di C.T.U. non si dovrebbe discostare dai dettami dell’approccio psicologico in senso generale, e si basa, come sappiamo, anche sulla possibilità di raggiungere un clima emotivo e disposizionale favorevole all’espressione di sé, sostenendo ascolto, comprensione, empatia diffusa. Capita talvolta che, contrariamente ai dettami riconosciuti, il C.T.P. entri nel contraddittorio con la controparte, ingaggiando un acceso contrasto di pareri, o che contesti l’operato del consulente del giudice quando questi si pone in maniera paziente, empatica o disponibile verso l’ascolto della persona e nella rispettosa considerazione dei suoi stati di sofferenza, quando si presentano: si rammenta il caso in cui un C.T.P. è giunto a definire “collusivo” l’atteggiamento del C.T.U. quando, a fronte di un’evidente condizione di disagio emotivo e pianto di una perizianda, a quest’ultima (testualmente) “viene offerta la possibilità di fermarsi per una breve pausa”: se si assume la premessa che la valutazione peritale dovrebbe muoversi, a parere dello scrivente, sempre all’interno di un perimetro di rispetto della persona, oltre che nei canoni della deontologia e dell’etica (utilizzo di condotte psicologicamente non lesive e considerazione della dignità personale[4]), è possibile che uno psicologo contesti ad un collega un atteggiamento come quello descritto?

L’atteggiamento denigratorio da parte dei CC.TT.PP., come risulta evidente anche da quest’ultimo aneddoto, può quindi essere rivolto anche verso il consulente del giudice. Talvolta tentando di squalificare il professionista nella sua persona anziché contestare i contenuti da lui sostenuti, talvolta esprimendo nei suoi confronti un fare svalutante o irridente[5]: ricordiamo a questo proposito una relazione di parte che si apriva con un incipit assai singolare, non riferibile a Baranger, Kohut o Racker, ma ad “un proverbio cinese” attraverso cui scagliare un insulto nemmeno troppo velato contro lo sguardo del C.T.U., ossia “Quando il dito indica la luna lo stolto guarda il dito”.

Ed ancora, nelle azioni di disturbo operate dai consulenti di parte verso l’operato del C.T.U., troviamo la sovrabbondanza degli scambi via e-mail, innescando una fitta rete di corrispondenza scritta nel tentativo di sfilacciare il ragionamento peritale, spostandolo in altra sede e generando intenzionalmente un accumulo ridondante e ripetuto di osservazioni fino all’eccesso; succede inoltre che, quando i CC.TT.PP. intendono rinforzare le loro richieste espresse nel corso dei colloqui, loro stessi attivino gli avvocati nel tentativo che quest’ultimi, a loro volta, si manifestino al C.T.U. con contestazioni in itinere, moltiplicando pertanto gli interlocutori a cui il C.T.U. dovrebbe far fronte: certo, è sufficiente non rispondere alle e-mail, ma l’azione - e l’intenzionalità - disturbante compare ugualmente e di fatto può sbilanciare negativamente il contesto di osservazione per via di sollecitazioni improprie o di sconfinamento del setting di discussione. In tali casi la struttura comunicativa diviene quella della propaganda, e una particolare accentuazione dell’intensità della stessa deriva esattamente dalla coralità: si evidenziano fattori di ripetitività, sistematicità, saturazione tematica, risonanza, struttura ad eco, mostrando la circolarità tautologica degli enunciati e il loro rimbalzo tra diversi soggetti, ossia, banalmente, nella forza di un gruppo di pressione che utilizza irruenza, veemenza, impeto, enfasi, impetuosità, radicalità, e il tutto con diverse teste – un’Idra - armonizzate nello stesso grido. Il modello comportamentale-gruppale lumeggia analogie con quello del bullismo, purtroppo, e la ripetitività sconfina nei processi morfologici specifici della cosiddetta reduplicazione linguistica, ossia nel raddoppiamento e nell’intensificazione tramite accumulo. Di nuovo, si configura il disturbo della valutazione, non il contributo ai processi di comprensione.

Le malpractice relative ai flussi di comunicazione non si esauriscono qui. È noto infatti come taluni CC.TT.PP. utilizzino il canale delle telefonate “private e riservate” al C.T.U., nelle quali sviluppare argomentazioni in assenza di contraddittorio: anche in tal caso può apparire semplice, oltre che necessario, rifiutare questo livello di comunicazione e stigmatizzare tali iniziative, ma ricordiamo come tra consulenti di parte e consulenti del giudice intercorrano spesso rapporti professionali di lunga data, conoscenza reciproca, vere e proprie amicizie, numerose occasioni di confronto e contatto anche in altre situazioni, nelle quali inserire en passant qualche sagace, pungente ed efficace commento sulla consulenza in atto, sapendo di non poter essere contraddetti e contando sull’informalità dello scambio. Ciò viene inoltre favorito da un dato incontrovertibile, cioè dalla scarsa rotazione o dal numero limitato dei C.C.T.T. su un determinato territorio, tanto che le reti di conoscenze si infittiscono portando gli stessi soggetti a trovarsi contemporaneamente, spesso a parti invertite C.T.U. - C.T.P., all’interno di più situazioni peritali.

Tale configurazione reticolare permette inoltre una sorta di scambio degli invii: è pratica diffusa, infatti, che le valutazioni indichino in sede conclusiva una presa in carico psicologica individuale o di coppia genitoriale, e che siano i consulenti stessi a suggerire i nominativi dei colleghi in libera professione a cui rivolgersi. Si tratta di una pratica che apre delle riflessioni nuovamente deontologiche[6] e che identifica molti spunti di criticità, primo tra i quali un vero e proprio scambio – o mercimonio - di offerte lavorative tra colleghi: è chiaro come le parti sottoposte a valutazione si trovino in uno stato di potenziale soggezione o subalternità rispetto alle indicazioni ricevute, e rinuncino in tal modo alla loro legittima facoltà di scelta del professionista[7], adeguandosi ad un indirizzo che rappresenta, su base economica, una sorta di commercio dei favori professionali, ossia di clientelismo. Si tratterebbe forse di una congettura eccessiva ipotizzare che tali scambi possano condizionare gli esiti delle valutazioni, dati gli elementi di gratitudine, riconoscenza e mutuo contraccambio che si vengono a creare tra professionisti, ma si coglie ugualmente con precisione quanto ciò sia inopportuno e quanto possa far scaturire facilmente - e riteniamo ingiustamente - il fantasma della corruzione. Siamo nuovamente all’interno di un ragionamento di etica applicata.

Succede infine, e anche questo riferimento è documentabile, che un consulente di parte possa interloquire con il C.T.U. incaricato prima ancora che quest’ultimo si presenti all’udienza per il giuramento, e allo scopo di informarlo debitamente di “come stanno le cose” prima che prenda visione del fascicolo: si tratta di una sorta di imprimatur manipolatorio basato sulla tempestività e sulla concezione per cui le informazioni iniziali[8]possano generare un indirizzo alla successiva valutazione, per via di indottrinamento unilaterale ab origine. Anche in questo caso, certamente, si tratta di rigettare la conversazione quando ci si trovi nei panni del C.T.U. interpellato, per quanto le strategie dell’interlocuzione del consulente di parte potrebbero mimetizzarsi dietro un fare garbato e ammiccante, dietro amicizia dichiarata, o in un insieme di altri riferimenti ininfluenti e confondenti nei quali far scivolare inavvertitamente (quasi fosse un fenomeno sottosoglia, in qualche misura subliminale) le informazioni necessarie.

Le forme della manipolazione, sappiamo, sono assai variegate. E risulta necessario tutelare il settingvalutativo dalle interferenze che giungono al consulente fin da subito, presentandosi inizialmente come spiegazioni certe – rassicuranti in quanto distanti dal dubbio - a cui viene chiesto di aderire acriticamente, poi come richieste metodologiche irriducibili e ultimative: ad esempio con pretesa di indirizzare l’operato del C.T.U. nella stesura del calendario (chi incontrare per primo, e nuovamente nelle suggestioni delle prime informazioni), poi, come detto, nella conduzione dei colloqui (stile e modalità del C.T.U. verso i periziandi), poi nell’indirizzo tematico dei colloqui (ostacolando lo sviluppo degli argomenti), nella scelta dei soggetti da convocare, nella revisione di decisioni già concordate (con grave disordine nei momenti cruciali, ad esempio come quando vengono incontrati i minori in un setting già stabilito che viene repentinamente scombinato da nuove richieste) e fino all’attribuzione del significato da dare agli atti, gerarchizzando le informazioni in base ad indubitabili premesse insieme ad un preconfezionato sistema di categorizzazione cognitiva. Non dovremmo invece considerare il percorso peritale come veicolato da una esplorazione ampia, “aperta” e prudente (in quanto consapevole dei limiti valutativi e delle possibilità d’errore), distante dallo stile polemico, non soggetta a pregiudizi o a diktat concettuali o ideologici, necessariamente riduttivi o fuorvianti specie quando aprioristici, categorici, perentori?


3. Riflessioni conclusive: cui prodest?

Quando l’oltranza affermativa declina nel dogma ideologico anziché nella ricerca, a chi giova? E quando le macerie prodotte da un ulteriore episodio di scontro, quale può divenire il percorso peritale se deformato dai processi sopra descritti, si sono accumulate in seno alle dinamiche intrafamiliari divenendo gangli inestirpabili aggiuntivi rispetto alla crisi già conclamata, a chi giova? Potremmo citare più e più situazioni in cui l’eccesso di esasperazione e l’irrisolvibilità delle situazioni, con accuse e controaccuse rivolte anche verso tecnici, consulenti, servizi sociali, hanno determinato infine una sorta di disimpegno da parte di tutti, lasciando sole sia le parti sia, più grave ancora, i minori coinvolti. La tenacia dello scontro richiede anche un teatro in cui realizzarsi e perpetuarsi, e quando i riflettori della C.T.U. si sono spenti, e i processi decisionali conclusivi si arenano nelle sabbie mobili delle contestazioni sleali, dei ricorsi sorprendenti, delle accuse più eccentriche, delle denunce, ossia della stagnazione antigenerativa e antiterapeutica, ognuno di noi (saldata la propria parcella) torna al proprio lavoro e ad occuparsi di altro, ma le situazioni rimangono, anche se ormai uscite dalla ribalta. Cessano i clamori, certo, e i vuoti fasti istrionici delle arringhe psicologiche, delle diagnosi ardite se non capziose, dello sfoggio della discettazione retorica – ancorché remunerativa, in quanto funzionale alla perpetuazione della causa - contro le presunte malefatte del genitore avverso, cessano declamazioni e scenari di invenzione, come se il tutto fosse riconducibile al genere letterario della tragedia. Ma non di letteratura si tratta, quanto piuttosto di situazioni reali.

Potremmo interpretare riduttivamente l’elenco delle malpractice come semplice dato di appartenenza a singoli soggetti, ossia a meschinerie individuali: temo, però, che si tratterebbe di un’operazione mentale di minimizzazione. Potremmo al contrario ribellarci a tale visione e interpretare la figura dello psicologo come affiliato ad un ghenos professionale e identitario scevro da queste cadute di stile: è probabile che adotteremmo in tale caso sistemi di negazione e di idealizzazione. Potremmo dire che quanto narrato semplicemente non esiste, e cancellare, forcludere, rimuovere, scotomizzare, adottando operazioni mentali potenti quanto arcaiche nell’annullamento.

Oppure, infine, si tratta di riconoscere che elementi di questo genere costituiscono dei dati permanenti nel lavoro di C.T.P. non tanto nella realtà del comportamento sistematico (che spesso e per fortuna rimane deontologicamente cristallino), ma quanto meno nel richiamo che essi producono nei confronti di noi stessi e di qualsiasi collega, e che sta a noi contrastare tali possibilità: riconoscere pertanto che il declino verso un possibile/probabile imbarbarimento – parabola non certa ma verosimile - richiede una serie di strumenti.

Quali? La formazione, certamente, e il dato culturale come elemento argine e come indirizzo alle buone prassi. Tra le altre cose, può essere utile recuperare i modelli interpretativi sistemici, che più facilmente, fin dalle basi concettuali, concepiscono la realtà come costituita - non limitata - dall’interazione complessa di pensieri, azioni, soggetti, ossia dalle pressioni incrociate dell’alterità: l’analisi familiare ne risulta più facilmente esplorata, ma anche l’analisi peritale e, cosa di cui ci stiamo occupando, quella del funzionamento del collegio peritale più le parti rappresentate. O ricordare i modelli relativi alla teoria della complessità o del costruttivismo, da von Voerster[9] ad Edgar Morin[10], ma anche, nelle sue sollecitazioni, ai paradigmi di ricerca di Gregory Bateson[11]: ampi sguardi rivitalizzanti, pur datati. Riteniamo peraltro che la priorità sapienziale non sia una tutela sufficiente rispetto alle traiettorie del degrado, che al contrario paiono basarsi fin troppo spesso su un’appartenenza accademica riconosciuta: non è la preparazione a difettare, che anzi compare come dato decorativo, vero orpello di abbellimento delle condotte professionali più disastrate, e spesso richiamato come elemento estetico a sostegno della propria tesi: “in quanto autore…in quanto membro della commissione... in quanto esponente dell’ordine professionale.... L’ostentazione scenografica dei titoli appartiene alla semiotica delle insegne, ossia alla parata (la sfilata, l’elencazione solenne) come declamazione della forza e dell’agonismo rivalitario, ed ancora una volta siamo sul registro non certo innocuo del narcisismo e al contempo su quello del tutto nocivo del potere, vera deriva disfunzionale.

Un ulteriore strumento di contrasto alle malpractice può essere la minor sollecitazione per noi psicologi, ossia evitare di occuparsi solamente o prioritariamente di consulenze peritali: meglio esporsi poco a tali situazioni in quanto pervasive ed in grado, pare, non solamente di assumere un portato istigatorio situazionale, funzionale a determinare uno specifico comportamento contingente nel professionista, ma anche trasformativo, cioè negli atteggiamenti generali sul lungo periodo e nel modo di porsi. E ciò fino ad esprimere modalità durevoli o a slatentizzare tratti di personalità: modi battaglieri, rissosità, rabbia inelaborata, litigiosità, irritabilità, franca aggressività, maniera stentorea, spesso declinata sul versante dell’arroganza o del giustizialismo… Supervisione e training personale divengono allora ulteriori e ineludibili necessità professionali a cui ricorrere.

Occorrerebbe forse, infine, ritornare al centro degli epistemi psicologici, e coltivare soprattutto la pratica clinica, terapeutica, che tra le altre cose ci permetterebbe di cogliere quanto accade nei soggetti periziati per via degli stessi accadimenti peritali, quando questi divengono un paradossale fattore eziopatogenetico e fino a generare il peggio, non a descriverlo o diagnosticarlo.

Danni, appunto, ma di che genere? Su un primo livello, per via dell’esasperazione della pregiudiziale simmetrica tra le figure del C.T.P. e del C.T.U. fino a compromettere la dialettica del contraddittorio, azzerandola nella sua connotazione di ricerca e confronto e enfatizzandola nella rissa confusa, ossia nell’agito scomposto in luogo del pensiero. Accade quindi ciò che E. Enriquez descrive a proposito dei rapporti di forza, generativi della “morte fisica o mentale”[12]. La valutazione necessaria al successivo processo decisionale in altre sedi si indebolisce, impasta e confonde, e più facilmente il consulente del giudice cade in errore. E su un secondo livello, forse ben più grave: visto che il percorso di C.T.U. non è un elemento neutro, meramente letterario, ma un episodio di vita reale dei soggetti coinvolti, diviene matrice esperienziale, accumulo traumatico nella memoria autobiografica dei minori, esposti all’impotenza dei fattori di protezione – in quanto gli adulti sragionano, “sono fuori”, mi disse uno di loro – e al climax della vulnerabilità psicologica in un arco temporale di per sé già fragilizzante in quanto volto al sovvertimento della sicurezza familiare per via della separazione genitoriale in atto. Capita così che il gran scenario dello scontro peritale si collochi tra le esperienze traumatiche deflagranti e divenga un fattore di orientamento della memoria d’infanzia. Talvolta il principale.

E dieci o vent’anni dopo, quando incontriamo quei minori nei nostri studi di psicoterapia, ormai adulti li sentiamo utilizzare quei ricordi per periodizzare la loro infanzia: la fase in cui la mamma e il papà litigavano, quella in cui gli avvocati si scontravano, e quella in cui “tutti quegli psicologi cervelloni” – cito le parole di un paziente – “hanno combinato il peggior casino”.

Ed allora, il nucleo fondamentale di questa riflessione non sembra risieda in una concezione che non si insegna soltanto, quella dell’etica?


[1] Psicologo-psicoterapeuta, Trento.

[2] Art. 21 del Codice Deontologico degli Psicologi Italiani, di seguito CDPI (“L'insegnamento dell'uso di strumenti e tecniche conoscitive e di intervento riservati alla professione di psicologo a persone estranee alla professione stessa costituisce violazione deontologica grave”) [3] KLEIN M. (1978) [4] Art. 4 CDPI [5] In violazione degli artt. 33 (“I rapporti tra gli psicologi devono ispirarsi al principio del rispetto reciproco, della lealtà e della colleganza”) e 36 (“Lo psicologo si astiene dal dare pubblicamente su colleghi (…) giudizi lesivi del loro decoro e della loro reputazione professionale”) del CDPI [6] “Lo psicologo (…) non utilizza il proprio ruolo ed i propri strumenti professionali per assicurare a sé o ad altri indebiti vantaggi”, art. 22 CDPI [7] Facoltà espressamente richiamata dall’art. 18 del CDPI [8] Con violazione del diritto alla riservatezza delle parti (art. 11 CDPI), data la trasmissione di informazioni relative al fascicolo al collega non ancora nominato dal giudice - che pertanto non ha titolo per acquisirle [9] VON VOERSTER H. (1987) [10] MORIN E. (1994) [11] BATESON G. (1984) [12] ENRIQUEZ E. (1991)


Bibliografia.

Codice Deontologico degli Psicologi Italiani.

BATESON G. (1984), Mente e natura, Adelphi, Milano.

ENRIQUEZ E. (1991), Il lavoro della morte nelle istituzioni, in AAVV L’istituzione e le istituzioni, Borla, Roma.

KLEIN M. (1978), Scritti 1921-1958, Boringhieri, Torino.

MORIN E. (1994), Il metodo. Ordine, disordine, organizzazione. Feltrinelli, Milano.

VON VOERSTER H. (1987), Sistemi che osservano, a cura di Ceruti M. e Telfener U., Astrolabio, Roma

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