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Malpractice nell'esercizio dell'attività psicologica di C.T.P.

Luca Degasperi


1. Premessa.

Al celebre architetto e designer italiano Gio Ponti viene attribuito questo aforisma: il committente è quel soggetto senza il quale l’architettura non si può realizzare, e con il quale l’architettura non si può realizzare. Un’affermazione paradossale - ma limpida ed onesta - rispetto ai vincoli di condizionamento che il libero pensiero, tecnico o creativo che sia, deve subire, e che intendiamo qui utilizzare nella sua veste di presentazione di un ambito differente, quello dell’intervento psicologico nelle consulenze tecniche di parte (C.T.P.) quale intervento specialistico per e nonostante il committente. Utilizzeremo questo termine non solamente per definire la persona fisica, ossia il soggetto rappresentato, ma anche l’intero scenario di committenza, ovverosia la configurazione reticolare dentro cui è calato lo psicologo di parte all’interno delle C.T.U. di ambito civile nel diritto di famiglia: i caratteri strutturali di tale scenario, questa è la tesi sostenuta, acquisiscono potere di interferenza rispetto al libero esercizio professionale, e fino a determinare una rete di vincoli, di pressioni, di richieste implicite o esplicite, di aspettative che sembrano superare di gran lunga un mero rapporto di subordinazione (fattore di potenziale limitazione dell’autonomia professionale) dovuto alla transazione economica, per entrare nei fenomeni di influenzamento o nelle distorsioni di ruolo.

Ci si occuperà quindi dell’analisi delle cosiddette malpractice, ossia di quelle condotte professionali che deviano dai modelli riconosciuti per funzionalità - le buone prassi - connotando la realtà effettiva, quella nel registro degli accadimenti e nell’espressione di gravi disfunzioni. Quest’ultime possono agire tramite pensiero distorsivo, disconoscimento, manipolazione, acting out; possono presentare indicatori di conflitto aggressivo o di contrapposizione aprioristica con la controparte, oppure di adesione collusiva, suggestiva o identificativa con la parte rappresentata; possono muoversi secondo una condotta sregolata e confusiva oppure, su un altro versante, secondo i dettami di una strategia raffinata quanto invisibile ad un primo sguardo, con modi surrettizi e ingannevoli o con il tenore eclatante e scenografico, istrionico o supponente che svuota i significati e colloca le azioni degli psicologi sul piano delle simulazioni, delle manipolazioni e delle falsificazioni, oppure delle ingenue supposizioni prive di costrutti a validità scientifica.

Va detto, il percorso di formazione degli psicologi in quest’ambito, esattamente come avviene in tutte le discipline, concerne soprattutto lo studio di modelli dotati di validità, esaustività e chiarezza dei riferimenti, e solitamente ci si muove verso il meglio, ossia in una tensione produttiva e propositiva a carattere maturazionale, in direzione favorevole: il C.T.P. potrebbe interpretare il suo ruolo sostenendo psicologicamente la parte rappresentata, valorizzando le sue risorse e rendendole esplicite e fattive, favorendo la piena e costruttiva comprensione dei fenomeni peritali anche in chiave maturazionale, quando non terapeutica, contribuendo a rendere esplicito il pensiero del proprio assistito e a tradurlo in formule funzionali ai sistemi valutativi, oltre che comunicativi, e sempre distinguendo tra realtà psicologica e realtà fattuale. O favorendo la predisposizione di un campo neutro, nel quale più facilmente si possano verificare negoziazione con l’altro genitore e coordinamento di mediazione a favore dei figli tramite elaborazione dei fattori conflittuali, come spesso richiesto dai quesiti del giudice. E molto altro ancora, su un versante favorevole che riscontriamo nella correttezza operativa di molti CC.TT.PP. e nelle buone prassi degli psicologi.

Quest’articolo si occupa di un processo inverso, cioè della rappresentazione dei fenomeni disfunzionali che potrebbero presentarsi e che, di fatto, non costituiscono solamente delle ipotesi fantasiose, frutto di un sistema pittorico a tinte fosche e a colori guasti, ma dei dati di realtà. L’osservazione si sposta dagli oggetti della C.T.U. psicologica (dinamiche separative di coppia, squilibri intrafamiliari e soggetti che li agiscono o li subiscono) e dai modi per analizzarli (processi inferenziali, metodologia valutativa, tassonomia interpretativa, etc.) alla consulenza stessa e ai consulenti, colti nei modi e nelle azioni effettive, non più nella letteratura delle indicazioni teoriche. Quanto qui riferito riguarda quindi l’esperienza diretta e costituisce una elencazione fenomenica, compilata tramite presa visione di fatti reali: rispetto ad essi vengono proposte delle aggregazioni in modelli descrittivi e esplicativi, teorizzando quindi degli elementi strutturali che possano favorire la comprensione di questi avvenimenti, e non limitandosi a considerare quest’ultimi come episodiche condotte negative da parte di singoli professionisti. Questa visione riguarderebbe un mero assetto puntiforme, con banali, isolati e sporadici “scivoloni di stile”, errori accidentali, piccole scorrettezze e cantonate contingenti, così come avviene nel più usuale comportamento umano: al contrario, proprio la ripetitività di quanto descritto suggerisce un ragionamento più approfondito, considerando tali eventualità non solo come marginali inciampi o casuali trabocchetti di una specchiata vita professionale, ma come traiettorie comportamentali non solo verosimili e possibili, iscritte nel registro degli eventi, ma probabili. Si tratta pertanto di abbandonare per un momento quei sistemi di idealizzazione che, anche nella nostra categoria, possono ingenuamente essere scambiati per reale tutela del buon funzionamento, ed abbandonare al contempo le difese di ambito denegatorio, vero vulnus, lo sappiamo, di ogni forma di disconoscimento della realtà.

Potremmo dire che tali eventi negativi siano statisticamente marginali, e che il solo fatto di occuparcene, e magari di enfatizzarli mentre li documentiamo o li esploriamo, dando ad essi una centralità che non meritano, può ledere l’immagine cristallina di una corretta pratica professionale, ma l’intenzione è quella opposta: si vuole qui proporre una disamina delle falle, dei punti di cedimento, delle azioni improprie, allo scopo di contribuire alla costruzione di sistemi di maggior correttezza, all’affinamento di criteri di analisi del funzionamento professionale, all’identificazione degli strumenti di autotutela rispetto ai rischi effettivi. Concettualmente, la teoria del buon funzionamento e del corretto posizionamento dello psicologo nell’esercizio della professione continua a rappresentare il punto di riferimento, ma - evocando il falsificazionismo di Popper - ciò non dovrebbe indurci il timore di constatare il resto, visto che, peraltro, “il resto” si manifesta agli occhi, ossia si presenta nella pratica operativa, talvolta con disarmante regolarità e chiarezza.

“Non c’è stato mortale che non si possa di volta in volta elogiare o deprecare”, scriveva Sofocle duemilacinquecento anni prima di quanto il DSM, a proposito della scala del funzionamento difensivo, indica in riferimento alla scissione versus la capacità di integrare in immagini mentali unitarie qualità positive e negative di sé e degli altri. Possiamo quindi assumere l’ipotesi che le eventuali malpractice non appartengano solamente a chi detiene un registro di funzionamento abitualmente scorretto, inaffidabile, improprio - attribuzione che ci permetterebbe di distanziare psicologicamente tali fenomeni, ossia di contestualizzarli altrove, e in sostanza nel comodo stereotipo del collega inadeguato - ma si presentino anche in chi conduce una pratica ragionevolmente seria, affinata in anni di professione e in plurime occasioni formative: si tratta in sostanza, e proprio all’interno di una logica integrativa, di considerare tali espressioni professionali disfunzionali non tanto come un monstrum eccezionale, irrilevante per frequenza o ascrivibile a singoli soggetti caratterizzabili per malfunzionamento (sottostima tramite negazione, proiezione, razionalizzazione, rimozione e minimizzazione), quanto piuttosto di percepirne la portata endemica, ossia la facile diffusione in una serie di comuni atteggiamenti, di ripetute facilonerie o di sistematiche disattenzioni a cui segue spesso una rapida autoassoluzione, catalogando il tutto nell’archivio degli errori da dimenticare. Così, però, pare non sia, quanto meno registrando la persistenza e la ripetitività, talvolta addirittura la prevedibilità, di talune manifestazioni, descritte in questo testo e in cui, si presume, molti ritroveranno dei frammenti di esperienze vissute nei collegi peritali.

Questo articolo non affronta un aspetto quantitativo, con computo dei livelli di diffusione di tali pratiche scorrette, ma si propone di sollecitare l’attenzione verso manifestazioni che, quando aggregate in insiemi comportamentali, sembrano costituire - questa è l’ipotesi trattata - dei dati ricorrenti, e pertanto degli oggetti con cui non possiamo evitare il confronto: tutte le situazioni narrate provengono dall’esperienza diretta dell’autore di questo articolo - e sono quindi documentabili - e dal confronto trentennale con i colleghi.


2. Alcuni accadimenti.

Ogni riferimento a circostanze reali non è puramente casuale, ossia, come detto, non verranno elencati episodi ipotetici ma ci si baserà solamente su fatti avvenuti. In primo luogo un dato di posizionamento visibile nei primi incontri: il C.T.P. può presentarsi esprimendo una piena e conclamata appartenenza alla visione portata dal suo assistito, ossia ad aderire in modo totalizzante, anche con rinuncia al proprio apparato critico, alle tesi di parte. L’intensità di tali fenomeni di credo e convinzione paiono indicare un portato identificativo, con adesione incondizionata alla “realtà” dei fatti narrati dal proprio assistito, e fino ad assumere convincimenti profondi in un testo indubitabile, sostenuto di fronte al C.T.U. in termini di certezza o di apparato dogmatico a seguito di una prima, pare preconfezionata, distribuzione dei ruoli. Il C.T.P. ripone in questi casi una fiducia acritica e antidialettica nelle ricostruzioni effettuate dalla parte rappresentata, nelle vicende riferite, nello svolgimento delle scene narrate, e può porsi quale strumento di amplificazione e consolidamento della verità indubitabile, sia essa relativa ad una particolare dinamica di coppia, ad un evento traumatico che ha investito i minori, ad un atteggiamento di una o dell’altra parte, ed infine in un sostanziale avallo di tutto ciò quale ricostruzione fattuale, con conseguente severa attribuzione di ragioni e di torti tramite splitting. È ben noto quanto quest’ultima modalità appartenga usualmente ai soggetti periziandi, che giungono di fronte al giudice, e secondariamente di fronte al consulente tecnico, con la pretesa di poter affermare le proprie ragioni convincendo qualsiasi ascoltatore, e senza considerare invece - cosa che forse capiranno nel corso dell’iter peritale - la complessità dell’analisi psicologica del campo relazionale, dove i processi interpersonali acquistano un’articolazione a più livelli che richiede lo specifico della lettura psicologica: tale dovrebbe essere il paradigma di riferimento del C.T.P. in quanto anch’egli psicologo, refrattario pertanto a visioni riduttive, specie se sostenute da una soggettività che può apparire ingenua ed autocentrata, se non supponente, a ipersemplificazioni o a unilateralità nella lettura dei sistemi relazionali.

Tale deriva nel malfunzionamento dello psicologo assurge in tali casi a pretesa della certezza, ossia dell’affermazione apodittica espressa con perentorietà e quale dato inoppugnabile, che subito si scontra, però, con la speculare evidenza altrettanto inconfutabile sostenuta con lo stesso vigore dal collega di controparte: l’aut aut converge sul chi ha ragione. Si tratta della naturale dialettica delle opinioni all’interno di un contesto di sano confronto, utile a ridurre il margine di errore in cui il consulente del giudice potrebbe incorrere? Il C.T.U., nella sua posizione baricentrica (che concettualmente non significa né giusta né vera), può cogliere con facilità disarmante la disposizione degli schieramenti, oltre che la frequenza con cui essi si collocano fin dal primo colloquio all’interno della cornice della propria parte: qualora si procedesse ad un’analisi statistica, tramite raccolta dati esperienziali dei CC.TT.UU., sarebbe impietoso ed ingiusto preconizzare una distribuzione al cento per cento delle rispettive convinzioni dei CC.TT.PP. nell’alveo della parte rappresentata, ma, si presume alla luce dell’esperienza, può essere che il dato non si discosterebbe di molto. Volendo qui prescindere dalle motivazioni, assai umane e che pertanto riguarderebbero anche la nostra categoria, che concernono la malafede e pertanto la semplice tendenza ad inseguire il profitto, possono essere presi in considerazione quei fenomeni di adesione indifferenziata su base di suggestione, di iniziale labeling in base alle prime informazioni ricevute quando il C.T.P. ha incontrato il futuro periziando nel proprio studio, di distorsione cognitiva per cui, attraverso la riproposizione di bias interferenti, la narrazione della realtà diviene la realtà stessa, e la codificazione dei dati entra nelle spirali di autoconvalida: fenomeni ben noti.

Ma se le cause di tali distorsioni/interpretazioni appartengono alle teorie della percezione, della rappresentazione, dell’alterazione e della suggestionabilità, e se ciò determina, come si evidenziava poc’anzi, una diffusione di assoluta rilevanza, con appartenenza ai rispettivi schieramenti, occorre aggiungere una considerazione sulle modalità con cui esse talvolta si esprimono, cioè sul registro espressivo: ovvero con intensità, radicalità, incrollabilità, intolleranza dogmatica. Manifestazioni che inducono in primo luogo una riflessione che attiene alla deontologia, e che rileva una tendenza possibile da parte del C.T.P. ad utilizzare nei confronti dei periziandi di controparte gli strumenti dell’enfasi ipercritica, dello slancio veemente e “gridato”, della foga polemica e dell’iperbole diagnostica, dell’accaloramento che difficilmente può essere associato alla pratica clinica psicoterapeutica o a quella diagnostico-valutativa, esercizi professionali a cui ci si avvicina con senso di moderazione, di grande responsabilità e cautela visti i contenuti affrontati e la loro incidenza sulle strutture psicologiche dei soggetti interessati (a cui lo psicologo ha accesso tramite i propri strumenti), di misura e di regolatezza specie nell’ambito dei conflitti familiari, dove i genitori andrebbero accompagnati verso una maggior capacità di mentalizzazione anziché di acting out. Ciò è quanto indicato, peraltro, nel Codice Deontologico degli Psicologi Italiani (art. 3): Lo psicologo è consapevole della responsabilità sociale derivante dal fatto che, nell’esercizio professionale, può intervenire significativamente nella vita degli altri (…) pertanto deve prestare particolare attenzione ai fattori personali, sociali, organizzativi, finanziari e politici, al fine di evitare l’uso non appropriato della sua influenza, e non utilizza indebitamente la fiducia e le eventuali situazioni di dipendenza dei committenti e degli utenti destinatari della sua prestazione professionale. Lo psicologo è responsabile dei propri atti professionali e delle loro prevedibili dirette conseguenze”.

Il lessico psicodiagnostico costituisce un’indubbia e ben avvelenata freccia a disposizione dello scontro, considerando specialmente come certa terminologia, vista l’appartenenza a determinati campi semantici socialmente riconosciuti come critici, se non temibili, suggerisca anche ai non specialisti (giudici, avvocati, la stessa controparte) delle vere e proprie suggestioni negative tramite stigma: un semplice riferimento al disturbo paranoide di personalità, alle strutture narcisistiche maligne, al rischio di agiti dirompenti, alla manipolazione o alla mitomania, con accenno al bugiardo patologico, sono solo alcuni degli esempi del vasto strumentario a disposizione della logica del discredito, sempre correlata ad un esercizio diagnostico a carattere iperbolico, accentuato, amplificato nella sintomatologia sfavorevole colta dal C.T.P. nella controparte, e talvolta rinforzato dai modi della descrizione, ossia da sapienti pennellate. Quest’ultime potrebbero rimanere rigorosamente circoscritte ad una sobria analisi tecnico-specialistica, esposta sulla base del codice scientifico, ma ciò non sempre pare accadere. Se consideriamo la valutazione del C.T.U. quale elemento di riferimento, vista la sua più facile (comunque non certa) imparzialità equanime, si constata nel C.T.P. con una certa frequenza l’ampio utilizzo di criteri di aggravamento in riferimento alla controparte (maggior durata e pervasività della sintomatologia, maggior frequenza di eventuali episodi acuti, accentuazione della maladattività, ecc.), e speculare alleggerimento (maggiore adattività, riscontri favorevoli, adeguatezza professionale e sociale, ecc.) rispetto al proprio assistito: come sopra esposto, la distribuzione dei pareri - ancorché assai convinti e finalizzati alla costruzione di un teorema nosografico - segue un disegno a dir poco schematico e prevedibile, oltre che ben argomentato sulla base della teoria psicologica più opportuna, ossia confacente allo scopo del momento. Tali argomentazioni divengono quindi speciose, ossia contengono un’apparente validità in quanto si riferiscono a modelli psicologici riconosciuti, ma si rivelano inconsistenti visto il loro utilizzo in un contesto improprio, aderendo ad un sistema puramente estetico ed appariscente: si tratta della parabola di decadimento dei più raffinati sofisti verso l’arte ingannevole dell’eristica, vuoto esercizio della voce. Solo per fare un esempio, la vicinanza di un genitore ai figli riguarda un attaccamento sicuro e organizzato, base necessaria per la successiva autonomia nello sviluppo, oppure costituisce uno strascico improprio di componenti simbiotiche, da cui il sequestro emotivo e relazionale e l’impedimento alla crescita? Valorizzare o stigmatizzare una situazione osservata risulta assai semplice, attingendo di volta in volta a Bowlby o Mahler, a Winnicott o Kernberg, quando più confacente. Quanto tale fattore di distorsione descrittiva vada ad inficiare presso le aule dei tribunali la credibilità professionale degli psicologi, che apparirebbe così sottoposta alle astute ed ineleganti regole della convenienza, non è argomento della presente trattazione, ma costituisce ugualmente un dubbio pertinente.

Talvolta, infatti, la terminologia utilizzata negli interventi verbali o negli scritti di parte esula del tutto dal frasario tecnico, per attingere a quello comune dell’enfasi screditante o, sull’altro versante, di esaltazione. Vediamo qualche esempio: nel primo caso, e sempre nel contesto della definizione della controparte, la definizione attribuita ad una signora è stata quella di “madre pericolosa”, “sciagurata” l’azione di un padre, “insopportabili bugie” le dichiarazioni di una madre, “un marito assente”, e di lui “che roba [sic], rimane ben poco da salvare”, “un goliarda”, “furbastro”, “pagliacciate da giullare” le azioni di recupero della relazione poste in essere da una madre con i figli, mentre nel secondo caso, nella definizione del proprio assistito, “una brava persona”, “un vero uomo”, “un’eroina”, “cornuta e mazziata”, “piacevole”, “una gran donna”. E ciò solo per riferire alcuni esempi. Ci si chiede a quale lessico clinico e a quale paradigma psicodiagnostico appartengano espressioni di tal fatta vista l’aggettivazione generica e antispecialistica utilizzata, che prelude spesso ad una spiccata attitudine contrappositiva nell’intera relazione di C.T.P. e si caratterizza quale urto dialettico, irrompendo nella situazione valutativa e nell’assai complesso tentativo, spesso promosso dal C.T.U. in quanto esplicitamente richiesto dal giudice, di ricostruzione di lealtà collaborativa tra i genitori. La terminologia dilettantistica può apparire innocua proprio per la sua superficialità, mentre, al contrario, riteniamo possa essere particolarmente dannosa in ragione della sua facile comprensibilità e immediatezza nella costruzione dello stereotipo: quest’ultimo, come noto, basa la sua efficacia proprio sulla grossolanità e sulla riduzione del pensiero.

Spesso, le elencazioni di attribuzioni negative (che talvolta prendono l’avvio da elementi realistici) vengono maneggiate concettualmente come oggetti decontestualizzati, al di fuori dei pattern comportamentali generali, e divengono “parte per il tutto”: in altre parole, si assiste in questi casi a sistemi sillogistici deboli, ossia a concatenazioni causali scorrette, nelle quali a partire da un elemento psicologico oggettivamente riscontrato ne vengono forzatamente fatti derivare altri, a sistemi abduttivi o inferenziali erronei in quanto privi di nessi, o alla confusione tra causalità possibile, specifica di un quadro diagnostico, e causalità probabile, linea di confine assai labile e pertanto facilmente soggetta a manipolazione concettuale. E ad ogni modo, l’assetto che si viene a determinare è quello polarizzato: su ciascuno dei periziandi viene operata dai rispettivi CC.TT.PP. un’azione simmetrica, con processi di svalutazione e di idealizzazione speculari tra loro.

Aggiungiamo che tale azione può essere ulteriormente inquinata dall’azione informativa da parte del con