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Intelligenza e processi decisionali in ambito forense.Il ruolo delle neuroscienze

M.C. Silvestri[1]


Psicologia & Giustizia

Anno XVIII, numero 1

Gennaio-Giugno 2017






Abstract

Lo scopo di questo elaborato consiste nella disamina dei meccanismi cerebrali alla base dei processi decisionali e dei relativi bias. Si intende valutare i differenti aspetti dell’intelligenza inficiati da processi di pensiero particolari chiamati “euristiche” o “errori di ragionamento” e la conseguente necessità del mondo forense di appellarsi alle neuroscienze ed ai principi della psicologia per applicare una sempre migliore prassi giudiziaria. Si procederà con una breve presentazione dello strumento “Advanced Q.I.” sperimentalmente sviluppato con lo scopo di rilevare le modalità e la frequenza con cui si tende a cedere alle euristiche nei processi decisionali quotidiani e non: ciò che è emerso dalle somministrazioni preliminari del test è che anche i soggetti con intelligenza media/elevata cedono agli errori di ragionamento e che, quindi, essa non costituisce fattore protettivo per la tendenza umana ad attivare scorciatoie euristiche nei processi di ragionamento.

Concentrandosi sulle differenze individuali nel ragionamento, sull'importanza della misurazione della razionalità ed irrazionalità umana e dei processi decisionali nel mondo forense (essendo i due costrutti legati a doppio filo), si intende porre l’accento sulle prospettive di studio future e gli ambiti di potenziale applicabilità dello strumento e delle neuroscienze più in generale, primo fra tutti l'ambito giuridico, dove l'intelligenza ed i processi di ragionamento fallaci potrebbero avere un'importante influenza sulla condotta criminosa e sulla sentenza del giudice e dove la “capacità” è intesa come “competenza legale” ed ha un ruolo chiave nei processi sia penali che civili.

1. L’intelligenza


“Two important facts about our minds: we can be blind to the obvious,

and we are also blind to our blindness”


(Due importanti fatti riguardo alla nostra mente: siamo ciechi all’evidenza

e siamo anche ciechi alla nostra stessa cecità)


- Daniel Kahneman, Thinking, Fast and Slow


L’intelligenza e i processi di pensiero sono da sempre legati all’interno della storia dello sviluppo cognitivo: gli psicologi hanno tentato di capire la relazione tra le norme stabilite dalle varie discipline e teorie cognitive e l’effettivo comportamento umano, per rispondere alla domanda che ci si pone su quale sia giusto definire “il comportamento più corretto” tra tutti quelli messi in atto dagli individui. Questa domanda costituisce la base di partenza di tutte le ricerche sull’intelligenza, che si concentrano sostanzialmente sulle differenze intellettive tra gli individui: approfondire questo aspetto non è utile solo dal punto di vista pratico (ad esempio in ambito lavorativo per la selezione degli individui secondo le loro abilità), ma anche dal punto di vista teorico (cioè stabilire natura e significato degli errori commessi dalla maggior parte delle persone in semplici problemi di ragionamento o prese di decisione). Gli scarti sistematici esistenti tra le prestazioni di differenti individui e le norme dettate dalla logica, dalla teoria delle decisioni e da tutte le altre teorie cognitive, dimostrano l’infondatezza della visione tradizionale che vuole l’essere umano capace di pensiero razionale, cosa che risulta incompatibile con i limiti esistenti e provati della nostra mente e del nostro cervello.

La “Teoria della logica” tradizionale infatti, ormai smentita dai recenti studi sul ragionamento, in linea con le visioni razionaliste del pensiero umano, concepiva l’uomo non esperto di logica, matematica o calcolo delle probabilità come un individuo in grado di applicare le regole delle discipline sopracitate e in grado di agire, quindi, in modo razionale; questo poiché si possono osservare, in molteplici momenti della vita quotidiana, molti individui che, seppur non avendo mai studiato la logica o la teoria delle decisioni, ragionano deduttivamente facendo continuamente scelte anche molto importanti: è il caso di un giudice che emette sentenza nei confronti di un imputato.

1.1 I processi cognitivi

La diffusione dei test d’intelligenza e di termini quali “Quoziente Intellettivo” lasciano intendere come, ormai, la concezione più diffusa d’intelligenza sia quella di una capacità di pensiero astratta che le persone possiedono in grado diverso.

L’intelligenza può, quindi, essere definita come l’insieme di capacità specializzate possedute dall’uomo per la risoluzione di problemi di vario genere, dall’orientamento alla memoria spaziale: da questa concezione moderna nasce l’interesse degli psicologi cognitivi per lo studio delle singole capacità e caratteristiche mentali – dall’attenzione alla percezione – comuni a tutti gli esseri umani. Allo stesso tempo nasce l’interesse opposto, cioè quello per le differenze individuali e per l’intelligenza intesa in senso differenziale, come qualcosa che è posseduto da tutti ma in modalità differenti, per capire a cosa sono imputabili le differenze individuali e di conseguenza che cosa misurano e predicono i test del Q.I..

Più in generale, i “processi cognitivi” possono essere definiti come quell’insieme di funzioni che consentono all’individuo di ricercare ed ottenere informazioni dall’ambiente, di trasformarle, di immagazzinarle, in modo da poterle utilizzare in momenti successivi nella propria attività e comprende, tra le altre, il ragionamento: le conoscenze, contenute nelle rappresentazioni mentali prodotte dai processi cognitivi, sono costruite nell’interazione con la realtà ed il mondo circostante e si modificano nel tempo aumentando con l’età e mutando qualitativamente per migliorare continuamente l’adattamento dell’individuo all’ambiente fisico, affettivo, sociale e culturale (Piaget teorizza, infatti, l’esistenza di quattro stadi o periodi di crescita intellettiva, che rappresentano livelli completamente diversi di funzionamento cognitivo).


1.2 Le tecniche di “brain imaging”

Da quando Freud tentò di capire il funzionamento della parte inconscia dell’essere umano, le metodologie e le tecnologie si sono evolute ed ora il modo di analizzare ciò che accade al nostro interno è mutato: le neuroscienze hanno dato un grosso contributo all’analisi della coscienza studiando il sistema nervoso, utilizzando le ‘brain imaging’ per mappare la mente al lavoro e la neurobiologia che permette di comprendere il funzionamento biologico della mente umana.

Sulla base di recenti ricerche neuroscientifiche, è lecito affermare che l’intelligenza non è una singola facoltà, ma si differenzia in molteplici espressioni: gli studi in laboratorio effettuati attraverso tecniche di brain imaging (elettroencefalogramma – EEG, tomografia ad emissione di positroni – PET, tomografia assiale computerizzata – TAC, risonanza magnetica – RM, stimolazione magnetica transcranica – tES) hanno reso possibile tracciare mappe dinamiche del funzionamento del cervello e, quindi, di determinare lo svolgimento delle attività mentali. In particolare, con PET e RM, che misurano il metabolismo cerebrale, è stato possibile osservare le aree cerebrali che si attivano, ovvero consumano più energia, in corrispondenza di determinate attività: da qui si evince che il cervello ha una vera e propria “rete di snodi funzionali” (Cocco, 2010) e che l’intelligenza umana non è una funzione unica, ma un sistema costituito da intelligenze diverse che si integrano tra loro.

Non vale più quindi il concetto tradizionale di “localizzazione cerebrale”, ma viene presa in considerazione l’esistenza di differenti aree cerebrali a sostegno delle funzioni mentali e delle derivanti forme di intelligenza da esse espresse: il ragionamento è deputato soprattutto all’emisfero sinistro ed in particolare ai lobi frontali, responsabili di ragionamento, processi decisionali, problem solving, pianificazione, etc..

Un importante contributo psicologico alle teorie dell’intelligenza fu dato, ancor prima delle neuroscienze, da Piaget che tentò di spiegare la conoscenza, ed il processo mentale che la origina, partendo dalle operazioni sulle quali essa si fonda (epistemologia genetica): nel suo modello la base dell’intelligenza è costituita da strutture cognitive diverse a seconda dello stadio di sviluppo umano in cui ci si trova. Successivamente nasce il concetto di Quoziente Intellettivo (Q.I.), che esprime le capacità intellettuali di una persona espresse nel rapporto tra età mentale ed età cronologica e si ottiene con la somministrazione dei reattivi d’intelligenza. È però interessante dal punto di vista forense distinguere tra i diversi tipi di intelligenza ed osservare che persone con Q.I. molto elevati, hanno poi punteggi inferiori se si tratta di determinare l’intelligenza sociale, quindi l’interpretazione delle emozioni ed il giudizio di valore morale delle azioni: ne è esempio uno dei casi più controversi della storia italiana: il caso Ludwing, che vide coinvolti i due serial killer Furlan e Abel, brillanti studenti universitari di Medicina e Fisica, appartenenti all’alta borghesia veronese, colti e dotati di intelligenza superiore alla media, che commisero dal 1977 al 1984 un elevatissimo numero di omicidi che rivendicavano a firma “Ludwing”.

In questo hanno aiutato gli esperimenti di Libet sul rapporto tra libertà e responsabilità e sulla compatibilità o meno del determinismo con la libertà umana: fu il primo ad ipotizzare e sperimentare la possibilità che le azioni umane non siano determinate coscientemente dall’uomo ed è su questo filone che troveremo, anni dopo, l’epigenetica e gli studi sulla plasticità cerebrale che stanno tutt’ora portando grossi problemi nelle aule di giustizia.

Oltre che l’importanza dei processi decisionali del pensiero umano, le tecniche di neuroimmagine, infatti, hanno anche aperto prospettive in merito al determinismo genetico e biologico della criminalità e dell’atteggiamento aggressivo (esemplificativa la storia dei “gemelli scambiati” di Bogotà) e permettono quindi di aggiungere elementi determinanti alla sentenza del giudice e che andranno a pesare su concetti fino ad ora esclusivamente giuridici quali responsabilità, imputabilità, capacità di autodeterminarsi, pericolosità sociale, capacità di cosciente partecipazione al processo ecc.

Il concetto di libero arbitrio, che sarà ripreso nel capitolo II, è strettamente legato, in tribunale, ai processi decisionali che determinano una azione criminosa e che sono, a loro volta, determinati dalla ragione unita alle emozioni: si può definire il libero arbitrio come “capacità di elaborare una decisione senza rispondere automaticamente ad un impulso”: il giudice dovrebbe essere per definizione un decisore imparziale e, quindi, dovrebbe essere in grado di scindere la sentenza delle emozioni correlate, ma ciò non è quasi mai possibile; ed ancora, non solo i processi decisionali sono inficiati da meccanismi di pensiero involontari, ma anche dal punto di vista organico le neuroimmagini trovano correlati tra comportamenti violenti e danni cerebrali, come una riduzione del fascicolo uncinato, danni al lobo frontale, tumori in varie aree cerebrali come l’amigdala.

Per quanto riguarda il nostro DNA, poi, il discorso si amplia ulteriormente e prende in causa gli studi di biologia e genetica molecolare, la decodifica del genoma umano ed il gene MAOA, per spiegare quanto e come i geni condizionano il nostro sviluppo: l’esistenza di geni ed alleli predisponenti al comportamento criminale, non indicano una predizione certa ma una alta probabilità che le persone con tali caratteristiche siano portate a delinquere nel corso della loro vita e sono queste le importanti implicazioni sociali degli studi che devono essere tenuti in considerazione in tribunale.

In conclusione, il sapere psico/neurologico dovrebbe essere inserito per prassi nell’applicazione delle categorie giuridiche sopra esposte ed in molti momenti dell’iter giudiziario: giudici ed avvocati hanno bisogno di aggiornarsi relativamente alle neuroscienze per capirne usi e limitazioni e, di conseguenza, usufruirne al meglio; i “test della verità” basati su scansioni cerebrali danno importanti indicazioni ma non sono infallibili (la psicologia infatti comincia ad essere utilizzata anche nell’accertamento strumentale della testimonianza: esistono valide procedure di lie-detection anche attraverso l’imaging cerebrale e non più solo con la registrazione dei parametri fisiologici) e molti studi sulla “mente Criminale” hanno risultati unicamente statistici di popolazioni che non possono attendibilmente essere applicati alla totalità delle persone, è quindi importante che la componente soggettiva delle conoscenze personali moduli il rapporto tra le due discipline.

La legge pone domande a cui la scienza non può rispondere, e la scienza risponde a domande che la legge non pone. Non si può saltare da una scansione dinamica del cervello al concetto di responsabilità”, ha detto Nigel Eastman (Professore di Legge ed etica in psichiatria all’Università di Londra), almeno non senza uno studio adeguato delle differenti discipline da parte di tutti i professionisti.

Uno dei problemi principali di fronte al sistema legale, che potrebbe essere risolto o almeno in parte spiegato dalle neuroscienze, è quello della definizione di “responsabilità”: in sempre più casi, ormai, gli imputati sostengono che pur avendo commesso il crimine, non sono da ritenere responsabili poiché attribuiscono al “loro cervello” l’averli resi impulsivi o violenti o capaci di premeditare un crimine. Ciò che ci si deve chiedere e a cui si deve dare risposta, quindi, è come poter fare ad usare al meglio le evidenze scientifiche nel mondo legale, slegandosi dal pregiudizio relativo alla loro validità e basato su precedenti errori dovuti alla sola cattiva conoscenza dello strumento e ad una inappropriata applicazione di questa scienza.

2. I processi decisionali


“Our comforting conviction that the world makes sense rests on a secure foundation: our almost unlimited ability to ignore our ignorance”

(La confortante convinzione che abbiamo di un mondo logico poggia su un fondamento sicuro: la capacità quasi illimitata di ignorare la nostra ignoranza)


- Daniel Kahneman, Thinking, Fast and Slow


I test di intelligenza basati sul rilevamento del Quoziente Intellettivo sono stati messi in discussione dal gruppo di ricerca di Stanovich, la cui tesi di base è che l'intelligenza, così come viene da sempre convenzionalmente misurata, lascia fuori i domini cognitivi più critici, che sono i settori del pensiero stesso. Per arrivare a questa conclusione, Stanovich e colleghi sono partiti dall’approfondimento del programma di ricerca sulle euristiche e sui pregiudizi aperto da Kahneman e Tversky alcuni decenni fa e per il quale Kahneman, nel 2002, vinse il Premio Nobel per l'Economia (Tversky morì qualche anno prima, nel 1996): a questi autori fu attribuito il merito di aver scoperto come il giudizio umano può prendere scorciatoie euristiche che hanno sistematicamente avvio dai principi di base delle probabilità. Il suo lavoro ha ispirato una nuova generazione di ricercatori di economia e finanza, unendo più discipline nel comune scopo di arricchire la teoria economica con intuizioni della psicologia cognitiva sulla motivazione umana intrinseca.

Uno dei motivi per cui l'opera di Kahneman e Tversky era così influente era che, per la prima volta, vennero affrontate questioni profonde riguardanti la razionalità umana: come è stato detto durante l’assegnazione del premio “Kahneman e Tversky hanno scoperto come i giudizi di incertezza si allontanano sistematicamente dal tipo di razionalità ipotizzato nella teoria economica tradizionale”. Gli errori di ragionamento scoperti da Kahneman e Tversky non sono quindi errori banali, ma procedimenti razionali (o meno) che vengono messi in atto per raggiungere i propri obiettivi. Violare le regole di pensiero esaminate dai due autori ha la conseguenza pratica che risultiamo meno soddisfatti della nostra vita: questo lavoro, insieme a quello di molti altri ricercatori, ha dimostrato come l'architettura di base della cognizione umana ci renda tutti inclini a questi errori nel giudizio e nel processo decisionale. Di conseguenze, emerge chiara la necessità che venga fatta luce su tale funzionamento, essendo impiegato in ambiti in cui l’uomo non può permettersi il lusso di ignorarlo e prendere decisioni senza sapere che queste possono essere frutto di pregiudizi e credenze inconsci.

È bene sottolineare, inoltre, che esistono differenze sistematiche tra gli individui nella tendenza a commettere errori di giudizio: queste differenze individuali sistematiche nel giudizio dimostrano l’esistenza di variazioni in caratteristiche importanti della cognizione umana connesse alla razionalità (ad esempio quanto efficienti siamo nel raggiungimento dei nostri obiettivi), attributi critici del pensiero umano.


2.1 La razionalità ed il libero arbitrio

Pensare razionalmente significa agire secondo i propri obiettivi e le proprie credenze (razionalità strumentale) e tenere in considerazione solo le credenze che sono basate su prove certe (razionalità epistemica): nella scienza cognitiva moderna, le molteplici prove sulle euristiche e sui pregiudizi – e la letteratura ancora più ampia nel campo della scienza della decisione – si basano sulla definizione operativa di razionalità.

Molte attività di pensiero razionale mostrano livelli sorprendenti di dissociazione dalla capacità cognitiva; ad esempio, per quanto riguarda gli errori di ragionamento costituiti dall’assunzione solo del proprio punto di vista, gli individui con più alto quoziente intellettivo non hanno meno probabilità di elaborare le informazioni da una prospettiva egocentrica rispetto a persone con un Q.I. relativamente più basso. Molti effetti classici, dalle euristiche ai pregiudizi – base-rate neglect, effetto framing, pregiudizi di ancoraggio etc. – sono moderatamente correlati all’intelligenza.

Frederick (2005), nel suo test di riflessione cognitiva, con il “Bat and ball problem[2] dimostra come la gente spesso cada in un errore di ragionamento senza che le capacità cognitive possedute possano fungere da garanzia contro di esso: la tendenza dell’“avaro cognitivo” rappresenta un problema di elaborazione del cervello umano.

La seconda ampia ragione per cui l'uomo può possedere poca razionalità, deriva da un problema di contenuti – quando gli strumenti della razionalità (pensiero probabilistico, logica, ragionamento scientifico) rappresentano una conoscenza dichiarativa che è spesso appresa non completamente, imprecisa o per nulla acquisita: errori nel pensiero razionale dovuti a lacune nelle conoscenze si possono verificare in un grande insieme di domini, tra cui non solo il ragionamento probabilistico come in questo caso, ma anche il ragionamento causale, la logica e la valutazione dei rischi di una determinata azione.

Il diritto ha da sempre adottato un’immagine di uomo che lo vede come consapevole e padrone delle proprie azioni, quindi un uomo razionale e dotato di libero arbitrio: questa visione è stata messa in discussione da poco e proprio grazie alla ricerca neuroscientifica, che spinge l’ordinamento giuridico a rivalutare alcune questioni centrali, ad esempio se l’atto criminoso sia da ritenere realmente l’esito di un’intenzione consapevole del soggetto. Come già detto, quindi, le neuroscienze mettono in discussione molti dei concetti chiave del diritto, quali razionalità, libero arbitrio, colpa e pena, a tal punto che c’è chi provocatoriamente usa il termine di “neuromania” come definizione per descrivere il grosso cambiamento che sta avvenendo nelle aule di giustizia e nei tribunali. La domanda principale che ci si pone è se le tecniche di brain imaging, dimostrando alterazioni nel cervello di un criminale, potranno influenzare il giudizio sulla responsabilità penale di tale criminale e, di conseguenza, sulla pena comminatagli: il dibattito è aperto ed i processi in cui ci si avvale delle neuroscienze cominciano ad essere sempre di più.

Tema centrale della materia in oggetto è il libero arbitrio, cioè le decisioni volontarie che prendiamo e se esse possano essere inficiate da specifiche patologie neurologiche o meccanismi cerebrali scorretti: esistono azioni finalizzate che però esulano dalla volontà dell’uomo, chiaro esempio è la sindrome della mano anarchica, in cui sono inficiate presumibilmente le aree funzionali del lobo frontale, adibito tra le altre cose alla volontarietà dei processi motori. La responsabilità, intesa anche in senso giuridico, non è da intendersi come direttamente collegata al cervello bensì agli aspetti cognitivi, due concetti differenti: si può trovare scientificamente il nesso causale alla base delle nostre azioni, ma il nucleo fondamentale della questione, soprattutto in ambito giuridico, è se un soggetto sia o meno in grado di fare altrimenti: ciò a cui le neuroscienze cercano di rispondere è se un soggetto macchiatosi di un agito criminoso, avrebbe potuto fare altrimenti se solo avesse voluto. Un eventuale danneggiamento cerebrale, in quanto tale, potrebbe determinare anomalie comportamentali, lo stesso un inconsapevole ed involontario meccanismo decisionale erroneo che inficia la scelta dell’azione o la valutazione delle conseguenze negative, ma ciò che è rilevante rispetto al crimine commesso è se il soggetto avrebbe la capacità di fermarsi.

Come si nota, il concetto di libero arbitrio è molto complesso, soprattutto perché non è solo analizzato dagli scienziati ma anche dai giuristi, che lo hanno dotato di innumerevoli sfumature: grazie alle nuove evidenze e ricerche, le neuroscienze aiutano a rendere un po’ più oggettivo questo concetto. Le neuroscienze all’interno del processo dovranno avere una sempre più esponenziale importanza poiché sono in grado di contribuire fortemente in numerose questioni come l’attribuzione di responsabilità, la valutazione della testimonianza, il riconoscimento visivo e possono essere utilizzate anche per supportare i giuristi nella elaborazione della cross examination, nello sviluppo delle strategie processuali, nella preparazione del testimone ecc.


2.3 Le scienze in tribunale, casi pratici

Scoprire nelle anomalie cerebrali le ragioni alla base degli atti criminosi e portare in tribunale come valide queste evidenze scientifiche, non solo è la nuova frontiera del diritto, ma anche delle neuroscienze: ancor meglio, la vera nuova frontiera del diritto sono proprio le neuroscienze.

Un esempio importante è quello del Dottor Domenico Mattiello, per il quale, secondo i periti, la causa del suo comportamento criminale era da spiegarsi nel tumore di 4 centimetri che premeva sulla corteccia orbitofrontale: un cordoma del clivus, rara forma di cancro. Le neuroscienze cominciano, quindi, a confliggere con le prassi giudiziarie e ad entrare in tribunale con la valenza di prove; la tesi del Mattiello non viene accettata, ma è l’unico caso in cui la prova neurologica non è valutata positivamente: l’Italia, con la sentenza di Trieste e le prime conoscenze sul gene MAOA (in particolare nel caso del 2007 di Udine avente imputato Abdelmalek Bayout) detiene il primato nella tenuta in considerazione delle evidenze neurologiche in casi processuali.

Con la sentenza di Trieste è stato sicuramente riconosciuto l’apporto della genetica e delle scienze “neuro” al mondo forense, ma le decisioni processuali non possono né devono essere assunte solo sulla base di quello, lo stesso giudice si pronuncia in merito: deve essere tenuto in considerazione anche il fattore ambientale.

La validità di tali affermazioni sono ben testimoniate dal caso processuale avente imputata Stefania Albertani, una donna della provincia di Como che nel 2009 ha avvelenato e poi bruciato la sorella e tentato di uccidere la madre: i suoi periti dimostrano in tribunale la sua infermità mentale, che sarà poi riconosciuta dal giudice, poiché dalla risonanza magnetica funzionale risultava evidente una densità neuronale inferiore alla media nella zona del cingolo e della corteccia prefrontale: la condanna è consistita nel trattamento necessario a permettere alla donna di costruirsi una personalità sociale, poiché sarebbe privo di senso infliggere una pena il cui valore punitivo e riabilitativo lo stesso imputato non è in grado di apprezzare.

Per concludere, è bene sottolineare che la possibilità di misurare le differenze individuali nel pensiero razionale avrà nel prossimo futuro profonde conseguenze sociali: le carenze in ciascuna delle sotto-componenti del pensiero razionale sono state collegate a molti aspetti pratici – tra questi vi sono i medici che scelgono cure mediche non ottimali, persone che non riescono a valutare con precisione i rischi nel loro ambiente, l'abuso di informazioni nei procedimenti giudiziari, milioni di dollari spesi per progetti non necessari da parte del governo e delle industrie private, genitori che non vogliono vaccinare i loro figli, inutili interventi chirurgici ed infine costosi errori di valutazione giudiziaria (per citarne uno fra tanti, il caso di Steven Avery, che nel 1985 venne accusato di stupro e arrestato, salvo poi, diciotto anni dopo, essere rilasciato grazie a un test del Dna, che provò la sua innocenza).

È estremamente importante rendersi conto che le abilità intellettive hanno dimostrato di essere insufficienti per comprendere e/o superare con successo questi errori di ragionamento e le loro conseguenze negative.

Non sarebbe utile cercare di fondere il concetto di azioni razionali con quello della formazione delle credenze, perché sono molto diversi tra loro: al contrario, il progresso scientifico procede nella direzione del loro differenziamento. Ciò che afferma con forza Stanovich è che sono già stati spesi decenni nel tentativo di misurare l’intelligenza ed è ora il momento di impiegare lo stesso tempo e le stesse energie nella misurazione di una qualità mentale altrettanto importante: la razionalità.

Altro aspetto fondamentale è che il riferimento del mondo giuridico è spesso il Codice Penale dove viene trascurato l’aspetto psicologico: è necessario sapere ridefinire il senso del reato, interrogarsi sul contesto in cui questo avviene, poiché da esso possono emergere cose non immediatamente osservabili dal racconto o dall’osservazione diretta dei fatti. Il reato non si configura quasi mai alla sola presenza dell’imputato ma è strettamente connesso alle relazioni con le altre persone significative o meno per il reo: cum-petere significa “legare insieme”, è necessaria la presenza di un altro soggetto per creare una azione dotata di significato.


2.2 Lo studio della decisione

“Decidere” è un’attività alla quale ci dedichiamo più volte nel corso di ogni giornata, in modo più o meno consapevole, ed è costituita dalla valutazione di alternative, dalle aspettative che si hanno sulla possibilità che si verifichino gli eventi e dalla produzione degli esiti e, quindi, delle conseguenze.

Lo studio della decisione ha origine quando matematici, filosofi ed economisti cominciano ad interessarsi della condotta razionale degli individui quando posti davanti a scelte dagli esiti incerti: con Daniel Bernoulli ed il suo “paradosso di San Pietroburgo”, cominciano ad essere sviluppati numerosi “problemi” che hanno l’intento di esaminare e far emergere proprio questi tipi di ragionamento. Gli studi effettuati sui principi di razionalità che stabiliscono la correttezza, o meno, di una certa risposta comportamentale hanno permesso di stabilire dei criteri sulla base dei quali valutare l’appropriatezza delle condotte individuali.

Tra i diversi principi base per la condotta razionale un contributo fondamentale è venuto dalla teoria dell’Utilità attesa, secondo la quale sarebbe possibile specificare con valori numerici i valori personali, in modo tale che un’opzione con conseguenze probabilistiche venga preferita alle altre solo se l’utilità attesa, per il soggetto, è maggiore dell’utilità attesa delle alternative. Lo studio dimostra, quindi, la possibilità di misurare in termini di utilità il valore attribuito dal soggetto alle conseguenze delle decisioni.

Altro contributo fondamentale allo studio sui processi decisionali e sulla loro razionalità è dato da Herbert Simon, il quale suggerisce che la razionalità non è solo “sostanziale” (esiti della decisione) ma anche “procedurale” (procedure utilizzate per decidere) e che vadano analizzate entrambe nello studio sui processi decisionali. Simon arriva quindi a definire il concetto di “razionalità limitata” partendo dall’idea che le persone non dispongono di totale informazione, non hanno un sistema di preferenze stabili e non sono dotate di risorse computazionali illimitate: questo porta, nella vita di tutti i giorni, ad applicare una sorta di economia di ragionamento che prende il nome di “euristiche”.

I soggetti applicano raramente le dispendiose procedure di scelta che li porterebbero a selezionare l’opzione in grado di massimizzare la loro utilità attesa, ma utilizzano invece le euristiche, procedure decisionali più semplici ed intuitive che, pur non garantendo la scelta migliore e portando a risultati meno soddisfacenti, garantiscono un più ragionevole ed accettabile investimento di tempi e sforzi.

I biases derivano dall’adozione delle euristiche e rappresentano deviazioni sistematiche rispetto agli standard previsi dal modello normativo e che costituiscono, in queste deviazioni, importanti regolarità comportamentali. I biases sono al pari delle illusioni ottiche in ambito percettivo e sono state studiate approfonditamente da Tversky e Kahneman che ritenevano queste deviazioni estremamente informative sui processi mentali alla base di tutte le decisioni.

Si nota, quindi, che la psicologia della decisione è un’area di ricerca sviluppata e di importante rilevanza in ambito forense: la ricerca si sta attualmente sviluppando in molte direzioni, soprattutto nel tentativo di identificare gli specifici meccanismi cognitivi che sottendono alle euristiche di scelta e giudizio. Tra le tematiche di ricerca più promettenti sulla decisione si annoverano la sua dimensione sociale, le differenze individuali e i processi intuitivi e meritano una particolare attenzione anche le ricadute applicative di questo studio, che riguardano proprio l’ambito giuridico.

3. Il test: “Advanced Q.I.”


“You are more likely to learn something by finding surprises in your own behavior

than by hearing surprising facts about people in general”


(È più probabile che impariate qualcosa trovando sorprese nel vostro comportamento piuttosto che ascoltando fatti sorprendenti che riguardano altre persone)


- Daniel Kahneman, Thinking, Fast and Slow




L’“Advanced Q.I.” è un test on-line che permette di valutare l’intelligenza in senso globale (intendendo, con questo termine, le abilità cognitive astratte insieme a quelle più prettamente pratiche) e che nasce dalla volontà di tradurre in italiano ciò che sino ad ora è stato sviluppato solo in lingua inglese: è Stanovich (2014) ad avere l’intuizione di ampliare il lavoro di Frederick (2005) nel tentativo di misurare un’intelligenza che si differenzi da quella classica – misurata ad esempio dal Test delle Matrici di Raven – e che tenga conto anche delle variabili che la possono influenzare in modo positivo o negativo – tra le quali gli errori di ragionamento, le trappole mentali, le credenze ingenue e molto altro.


3.1 Obiettivi ed ipotesi di ricerca

Per lo sviluppo del test sono state prese in considerazione principalmente le teorie di Raven e Stanovich: l’obiettivo primario è creare uno strumento che permetta di mettere a confronto e valutare i due tipi diversi di intelligenza, così come definiti dai due autori.

Secondo Raven, l’intelligenza può essere misurata attraverso la valutazione del Quoziente Intellettivo emergente, ad esempio, dal suo Test delle Matrici: questi tipi di capacità cognitive sono riferite soprattutto al ragionamento astratto e, quindi, all’intelligenza cosiddetta “fluida”. Stanovich, invece, ipotizza e successivamente prova l’esistenza del “Rationality Quotient” – o “Quoziente di Razionalità” – ovvero quelle abilità intellettive influenzate in modo positivo o negativo da processi di ragionamento particolari e differenti tra un individuo e l’altro, che sono chiamati “euristiche” o “errori di ragionamento”.

Lo scopo non è solo il mero confronto tra queste due intelligenze, ma ci si è anche chiesti se l’una potesse essere presente in assenza dell’altra e viceversa in uno stesso soggetto: è possibile per un individuo essere abile a trattare problematiche astratte e meno – o per nulla – abile nell’affrontare quelle più concrete e viceversa? Ed, infine, una capacità implica obbligatoriamente anche l’altra?

Per rispondere a questo quesito si è pensato di sottoporre i soggetti ad un test che comprendesse entrambi gli item, quelli scritti sviluppati da Stanovich e non ancora inseriti in un test in lingua italiana e quelli visivi Raven-type.

Le ipotesi che hanno dato avvio alla ricerca sono che il Q.I. differirebbe dal R.Q. e che i soggetti confermerebbero la tendenza a cadere negli errori di ragionamento pur avendo un’intelligenza nella media e nonostante la presenza di risposte alternative faciliti, in alcune domande anche enormemente, il raggiungimento della risposta corretta attraverso una semplice tecnica secondo cui basterebbe “provare” tutte le opzioni fino ad arrivare alla risposta giusta.

Il progetto, infine, vede il suo completamento in un’ottica in cui questo strumento potrebbe essere impiegato non solo per verificare quanto esposto sino ad ora, ma anche essere applicato in ambito forense, dove potrebbe rendersi utile nel valutare quale tipo di intelligenza stia alla base di una condotta criminosa o sia da ricondurre all’intenzionalità con cui quest’ultima viene messa in atto, i processi decisionali alla base delle sentenze e/o dell’applicazione della pena, i pregiudizi su cui si fonda l’opinione della giuria.

Ciò su cui si intende riflettere è se queste differenze individuali nelle performance di soggetti posti davanti agli stessi problemi siano da ricondurre a semplici errori di distrazione o di altra natura o a modelli in cui la predominanza della risposta intuitiva piuttosto che di quella corretta e “ragionata” sono dovuti a precisi errori di ragionamento e distorsioni cognitive.


3.2 L’“Avarizia Cognitiva”

La “Teoria del duplice processo” è stato il punto di partenza per lo sviluppo degli strumenti che hanno portato alla nascita dell’“Advanced Q.I.”: l’assunto di base di questa teoria è che le persone tendono ad essere “cognitivamente avare” nel loro modo di pensare ed è proprio questo a rendere così importanti le funzioni ignorate nella maggior parte delle teorie.

L'assunto della “povertà cognitiva” è stato uno dei temi principali nei passati cinquant’ anni di ricerca in psicologia e scienze cognitive (Stanovich, 2009; Tversky, e Kahneman, 1974).

Quando si appresta ad affrontare un qualunque problema, il nostro cervello ha a disposizione vari meccanismi computazionali per affrontare la situazione: questi meccanismi incarnano un trade-off : la scelta che deve essere fatta tra il Sistema di tipo 1 e di tipo 2, è basato a sua volta sulla preferenza tra costi o potere computazionale: il Sistema di Tipo 2 permette di risolvere una vasta gamma di problemi nuovi con grande precisione, ma ad un costo elevato in termini di sforzo cognitivo; al contrario, i processi di Tipo 1 hanno basso potere computazionale ma anche basso costo.


3.3 Evidenze

Una delle competenze necessarie per l’adattamento è la capacità di prendere decisioni, inficiata però, nella realtà quotidiana, dall’esistenza di euristiche e trappole mentali che possono indurre in errore (l’uomo, posto davanti a problemi di vario tipo che sottendono euristiche o trappole mentali, tende a non ragionare logicamente e razionalmente ma ad adottare quelle scorciatoie mentali a risparmio cognitivo che lo inducono in errore).

Le trappole mentali possono essere indotte e verificate sperimentalmente da stimoli che evidenziano come la mente umana sia piena di zone d’ombra che inducono a trascurare i dati e le informazioni essenziali: proprio questo è possibile fare grazie a strumenti come l’Advanced Q.I., che mettano in evidenza la facilità con cui il ragionamento umano prende strade fuorvianti rispetto a quelle logicamente e razionalmente percorribili.

Lo strumento sopra descritto mette in evidenza l’errore di ragionamento celato dietro ad ogni item e la facilità con cui i soggetti vi cadono; al contempo, si evince una prospettiva di studio futura nel confronto del quoziente di razionalità con il quoziente intellettivo.Nell’ambito delle prospettive future che si delineano, importante è la piega forense che può prendere il suo utilizzo: una delle componenti fondamentali dell’intelligenza è il “processo decisionale”, termine – quello di “processo” – che rievoca anche il ruolo chiave che hanno le capacità cognitive, l’intelletto e la capacità di prendere decisioni, in particolare all’interno di un “processodi tipo penale e/o civile. Non è idoneo, in questa sede, discutere di quali decisioni siano buone o cattive in senso assoluto, ma può essere interessante indagare come la modalità con cui vengono vagliate le alternative di comportamento ed il ragionamento che sta dietro alla decisione di adottare una condotta criminosa piuttosto che un’altra, siano influenzati dall’intelligenza individuale e se vi sia tra loro un’influenza reciproca.

Per tutto quanto esposto sino ad ora, si ritiene che uno dei possibili impieghi dello strumento qui sviluppato con il nome di “Advanced Q.I.”, sia in ambito forense: potrebbe dare interessanti spunti di riflessione ed approfondimento nell’ambito della relazione tra intelligenza e criminalità, poiché sarebbe interessante indagare se questo specifico tipo intelligenza ed il quoziente di razionalità, caratterizzati da processi di ragionamenti errati e da euristiche, influenzi in qualche modo, o sia costitutivo, la condotta criminosa.





4. Il processo decisionale nel contesto forense: l’incapacità naturale


“A recurrent theme is that luck plays a large role in every story of success”

(Un tema ricorrente è che la fortuna gioca un ruolo importante

in ogni storia di successo)


- Daniel Kahneman, Thinking, Fast and Slow


Con il termine “capacità” si indentifica solitamente un concetto clinico che definisce quell’insieme di abilità individuali volte al compimento di azioni più o meno complesse e che poggiano sia sulle capacità decisionali del paziente che sull’idoneità cognitiva al compito richiesto. La valutazione di tali capacità fornisce le informazioni più importanti per prendere una decisione in ambito giuridico; infatti la capacità è intesa anche in senso giuridico ed è detta competenza legale, indica ciò che distingue tra una persona che è in grado di prendere una decisione e quella che necessita che altri decidano al suo posto (Stracciari, Bianchi, Sartori, 2010). Nonostante queste due capacità siano esaminate da professionisti differenti (il clinico ed il giudice), le loro conclusioni sono sovrapponibili in quanto sono molteplici le aree della capacità umana che il clinico è chiamato ad indagare in ambito forense. L’essere in grado di agire in attività come testimoniare, votare, detenere un arma etc., oltre a richiedere un’idoneità specifica, dipende strettamente dal mantenimento di un’adeguata capacità decisionale: un atto è tanto più complesso quanto più richiede l’utilizzo di risorse cognitive specifiche, come la capacità di astrazione, di ragionamento e la capacità di prendere decisioni in modo libero e consapevole. Inoltre, spesso, la questione centrale nel corso di una relazione peritale, non è tanto verificare l’esistenza di uno stato di normalità o di patologia nel periziando, ma “se” e “in che grado” vi sia l’idoneità a compiere una scelta razionale ed autodeterminata. La Psicopatologia forense pone l’accento sulla relazione tra complessità degli atti e capacità cognitive residue: la valutazione della capacità naturale (ad esempio la capacità di disporre per testamento o di donare) non va condotta in astratto, ma deve essere determinata in relazione alla complessità dell’atto sulla base del carico cognitivo richiesto dall’atto stesso, ciò che conta è l’idoneità dell’apparato psichico residuo a compiere l’atto.

Parallelamente alla complessità dell’atto è bene tenere in considerazione la gravità dell’incapacità naturale che deve aver impedito di valutare adeguatamente l’entità dell’atto che si stava per compiere e, quindi, la libera autodeterminazione: l’“Incapacità naturale” consiste in una condizione mentale presente al momento del compimento dell’atto tale da rendere la persona incapace di intendere e volere pur non sussistendo interdizione o inabilitazione. Questa definizione garantisce di tutelare non solo coloro che sono affetti da psicopatologia conclamata, ma anche coloro che per causa qualsiasi o transitoria (quindi senza precise durata, stabilità ed abitualità) sono incapaci di intendere e volere, totalmente o parzialmente.

La capacità decisionale assume quindi importanza nel contesto forense nel momento in cui sta alla base della capacità di agire: essa decresce col diminuire delle capacità cognitive e si muove lungo un continuum dalla sua presenza alla sua assenza (Stracciari et al., 2010).

Lo stesso Codice dà un’importanza specifica all’intervento dell’esperto delle discipline psicologiche ed in molti degli articoli del Codice di Procedura Penale si richiama all’importanza che determinati concetti necessitino di interpretazione non solo giuridica per essere applicati adeguatamente, basti guardare gli artt. 70-71-72 c.p.p e la relativa Sentenza n. 39 della Corte Costituzionale del 2004, che contempla la partecipazione attiva oltre che la già presente partecipazione cosciente o la sentenza relativa alla capacità di intendere e di volere e ai disturbi della personalità dell'imputato (Cassazione, SS.UU. penali, sentenza 08.03.2005 n° 9163), che devono necessariamente essere valutati da un esperto in materia.


4.1 Valutazione della capacità decisionale

I test possono essere applicati dal perito in prima persona o può chiedere che il magistrato nomini un esperto in psicologia; il clinico, se interpellato per una valutazione in ambito forense circa l’eventuale presenza di impedimenti alla capacità decisionale e quindi di agire in un soggetto, deve limitarsi a fornire un parere tecnico su eventuali patologie, deficit, conseguenze e rimedi, applicando un protocollo flessibile e completo: l’impressione clinica deve essere integrata con l’utilizzo di strumenti testistici idonei al caso in esame, pur avendo presente che nei risultati è necessario tenere conto anche di ciò che il soggetto è effettivamente in grado di fare nelle circostanze concrete, dove meglio si esprimono le sue competenze.

La valutazione neuropsicologica si compone di una serie di test esploranti la maggior parte delle funzioni legate agli aspetti rilevanti della capacità di agire: si valutano non solo gli aspetti singoli, la cui integrità è necessaria all’esercizio della capacità, ma anche lo stato cognitivo generale, poiché sarebbe scorretto giungere ad una diagnosi basata sui soli risultati al test, che vanno invece collocati all’interno di una discussione clinica più ampia decidendo quali test prendere in seria considerazione. La valutazione funzionale invece esplora, con strumenti ad hoc, gli aspetti più specifici delle capacità decisionali: questi strumenti sono quantitativi, di natura osservativa, molto simili agli strumenti più propriamente neuropsicologici (Stracciari et al., 2010). I reattivi mentali in ambito forense rappresentano situazioni stimolo standardizzate e strutturate volte ad evocare risposte verbali o gestuali e sono principalmente test di personalità o di efficienza mentale: successivamente saranno presi maggiormente in considerazione questi ultimi, tra i quali vediamo annoverate le Matrici Progressive di Raven.

Come afferma il Fornari “i reattivi di efficienza misurano la funzione quantificabile del pensiero, cioè l’intelligenza, altrimenti intesa come capacità che l’individuo possiede di comprendere, affrontare e risolvere in maniera adeguata ed adattiva i problemi della vita (se non turbato da altri disturbi psichici)” (Trattato di psichiatria forense, 1997, pag. 270). I reattivi di efficienza sono applicati per diagnosticare insufficienze mentali, approfondire quantitativamente e qualitativamente insufficienze lievi (pseudo-insufficienze intellettive con Q.I. = 70/75 e 85/90) e quantificare il deterioramento mentale (D.M.), inteso come la diminuzione o perdita delle funzioni intellettive ovvero quando un individuo non possiede più rapidità, efficienza e precisione idonee allo svolgimento del proprio lavoro intellettuale e dato dalla differenza tra i risultati ai reattivi le cui prove sono superate (R.T.) ed i risultati ai reattivi le cui prove non sono superate (R.n.T.), il tutto diviso per R.T (Fornari, 1997).




4.2 Intelligenza e criminalità

Ciò che spesso ci si domanda è se l’intelligenza sia un fattore causale o predittore del comportamento criminale: ci sono molti studi che evidenziano da un punto di vista statistico la correlazione negativa tra capacità cognitive e comportamenti antisociali, ma è altresì vero che bassi livelli di intelligenza sono presenti in molti individui ad alto tasso di criminalità e che persone con alti Q.I. hanno più possibilità di avere successo nella vita, intraprendere ottime carriere lavorative ed accedere a status sociali medio-alti. Le persone con basso Q.I. hanno spesso anche bassa scolarità quindi meno possibilità di carriera rispetto alle alte probabilità di entrare nella carriera criminale o della prostituzione, soprattutto se anche il contesto di nascita e crescita favorisce queste “strade”: rapine, furti, furti con scasso richiedono chiaramente un Q.I. inferiore a quello richiesto per accedere all’università ed ingenerale ad intraprendere una carriera scolastica di successo. Sono tanti i fattori che giocano un ruolo importante nella scelta del percorso di vita di ogni singolo individuo, come la personalità, la fortuna o semplicemente la salute (fisica e mentale), ma l’intelligenza resta sicuramente un importante fattore causativo (Eysenck & Gudjonsson, 1989). Inoltre, a sostegno del fatto che l’intelligenza sia un fattore determinante per comportamenti criminali, in molti studi si sottolinea la forte correlazione tra Q.I. e condotta criminosa anche se in questo caso si pone l’accento sull’indipendentemente tra quoziente intellettivo e razza o classe sociale.

Successivamente, nel 1988, sono poi stati condotti studi che hanno provato, se non un ruolo causativo di bassi livelli di Q.I. sulle condotte criminose, un ruolo protettivo che hanno alti livelli intellettivi su soggetti ad alto rischio di condotte criminose: dallo studio risultò che i soggetti che non avevano mai commesso reati, pur essendo ad alto rischio di comportamenti criminali avendo padri criminali, avevano un Q.I. significativamente alto; questi studi sono stati interpretati come il possibile ruolo protettivo che hanno alti Q.I. per soggetti ad alto rischio di sviluppare condotte criminose, attraverso la mediazione di effetti rinforzanti dovuti al successo nel sistema scolastico. Sembra, invece, che un basso Q.I. sia un potente mediatore della condotta criminale, anche se tale mediazione potrebbe essere indiretta e passare attraverso il successo scolastico.

Un altro studio di Jensen e Faulstich (Jensen et al., 1988) rispose ad una questione importante ancora da risolvere, cioè se i criminali differivano psicometricamente dalla popolazione generale principalmente nel fattore generale di intelligenza “g”: lo studio, condotto su soggetti criminali bianchi e di colore sottoponendoli alla scala Wechsler per adulti e confrontandone poi i risultati con quelli di soggetti non criminali con le stesse caratteristiche anagrafiche, produsse risultati che dimostrarono che la fonte principale delle differenze tra i due gruppi di soggetti criminali e soggetti non criminali era prevalentemente prodotta dalle differenze in “g”.

Le capacità intellettuali possono seguire uno sviluppo incompleto o insufficiente a causa di sindromi che esordiscono in infanzia o in adolescenza ma non solo: l’eventuale quadro di ipoevolutismo dell’individuo deve essere analizzato da un punto di vista multi-fattoriale per determinarne gravità e possibilità di recupero, sia a fini psichiatrico forensi che per l’organizzazione di un intervento rieducativo. Si possono distinguere insufficienze mentali dovute a fattori biologici (genetici come ad esempio anomalie cromosomiche), psico-sociali (carenze affettive, culturali, sociali ed educative) o ad entrambi: per distinguere i vari gradi di insufficienze mentale si ricorre spesso, oltre all’osservazione delle caratteristiche cliniche e comportamentali del soggetti, alla determinazione dei suo Q.I., che misura non solo la quantità di intelligenza posseduta, ma anche il funzionamento cognitivo davanti a problemi quotidiani ed in funzione dell’adattamento.

Le insufficienze mentali che rientrano nella categoria di “ritardi” (o “demenze” se il quadro esordisce dopo i 18 anni di età) corrispondono ad un punteggio Q.I. tra 0 e 70, ma bisogna necessariamente tenere conto, per non giungere a false valutazioni diagnostiche, anche di altri numerosi fattori che possono interferire negativamente sul livello di intelligenza, quali deficit senso-motori, turbe della condotta, analfabetismo, etc.

In ambito forense sono di particolare interesse gli insufficienti mentali gravi (Q.I.=0-20/25) soggetti al compimento di reati d’impeto, acting-out, incapaci di auto-controllo sono spesso accusati di lesioni, aggressioni, ingiurie seguiti da uno stato confusionale; gli individui con queste caratteristiche sono spesso ricoverati e raramente subiscono una denuncia da parte di chi ha subito il reato, andando ad aumentare quella che in criminologia è chiamata “cifra nera”. Altra categoria di cui tenere conto ed interessante sia dal punto di vista quantitativo che qualitativo sono gli insufficienti mentali medi (Q.I.=20/25-50/55) che sono coinvolti nel reato non solo attivamente ma anche passivamente: per loro caratteristiche intrinseche ricoprono molto spesso anche il ruolo di vittime essendo facilmente suggestionabili ed influenzabili (specie per quanto riguarda i reati sessuali). In questo ultimo caso è molto probabile che venga disposta perizia psichiatrica ed a livello psichiatrico-forense è indubbio che nell’insufficiente mentale grave l’imputabilità sia esclusa, cosa che non accade per il ritardato lieve.

Per quanto riguarda il quoziente intellettivo è bene tenere presente che l’eventuale carcerazione prolungata o il ricovero in Ospedale Psichiatrico Giudiziario causano un sottorendimento difficile da valutare nella incidenza su basso livello di Q.I..

5. Psicologia, Neuroscienze e mondo forense



“It’s much easier to strive for perfection when you are never bored”


(È molto più facile tendere alla perfezione quando non si è mai annoiati)


- Daniel Kahneman, Thinking, Fast and Slow


La nostra vita è costellata di decisioni, più o meno inconsapevoli. Se esistesse un metodo o un test per la rilevazione dei meccanismi decisionali alla base di ogni nostra scelta e delle distorsioni cognitive che le inficiano, quanto sarebbe teoricamente interessante e quanto praticamente utile ai fini forensi e di ricerca? Capire in che modo si attivano gli errori di giudizio potrebbe essere utile non solo per meglio valutare la responsabilità penale di un imputato, ma parimenti interessante per analizzare il processo decisionale del giudice nel momento dell’emissione della sentenza, o dell’avvocato americano nel momento in cui sceglie i membri della giuria.

Nel corso della normale quotidianità di ognuno di noi si prendono un numero infinito di decisioni anche su questioni apparentemente irrilevanti ed è interessante vedere quanto pensiamo di operare nella piena consapevolezza di ciò che vogliamo e quando invece siamo influenzati dai bias a cui cediamo, dalle euristiche che adottiamo e dalle strategie, a volte fallaci, di cui ci serviamo.

Per quanto riguarda il mondo forense, c’è una stretta connessione relativamente alla lettura che si può fare, alla luce di credenze fallaci, illusioni e bias cognitivi, del grande spettacolo processuale e delle azioni dei suoi attori (il cui termine assume quindi, per quelle persone, non più solo valenza giuridica ma anche quella più tradizionalmente intesa come interpreti di un ruolo).

Spesso, la questione centrale nel corso di una perizia non è tanto verificare l’esistenza di uno stato di normalità o di patologia nel periziando, ma se ed in che grado vi sia l’idoneità a compiere una scelta razionale ed autodeterminata; sempre per quanto riguarda la relazione peritale, l’impressione clinica deve essere integrata con l’utilizzo di strumenti testistici idonei al caso in esame: la valutazione neuropsicologica si compone di una serie di test esploranti la maggior parte delle funzioni legate agli aspetti rilevanti della capacità di agire.

Molti studi che evidenziano da un punto di vista statistico la correlazione negativa tra capacità cognitive e comportamenti antisociali, ma è altresì vero che bassi livelli di intelligenza sono presenti in molti individui ad alto tasso di criminalità: i bias e le distorsioni cognitive pervadono il processo decisionale ed il ragionamento umano, influenzando così il modo in cui le persone si rappresentano il mondo ed hanno conoscenza di esso; questi meccanismi risultano essere involontari, inconsapevoli e così preponderanti da inficiare anche i soggetti più abili.

Le euristiche non sono per forza, e sotto tutti i punti di vista, negative: una tendenza estrema verso l’ottimismo, ad esempio, può portare ad errate considerazioni, ma potremmo essere in grado di alzarci da letto la mattina, senza questa illusione di controllo? Non può essere vista come addirittura protettiva rispetto ad un’altra euristica – l’avversione alle perdite – che potrebbe avere effetti paralizzanti sulla vita degli individui? Certo, probabilmente senza le euristiche giungerebbero tutti alla decisione più corretta in ogni contesto, ma sarebbe allo stesso tempo anche la decisione più adatta a quel contesto? Non è chiaro se le vite delle persone migliorerebbero una volta libere dai pregiudizi e dalle illusioni trattate sino ad ora.

In realtà, era questa la vera domanda che si poneva Kahneman, ed alla quale probabilmente non si avrà mai risposta: qual è la vera razionalità, fino a dove arriva? In un’ottica darwiniana, l’essere umano così come è ora, dopotutto, è un sopravvissuto ed è forse così che forse si dovrebbe continuare a vivere.

Senza proseguire oltre con questa concettualizzazione e trascendere nel filosofico, si dimostra chiaro l’interesse della cognizione modulata da questi fenomeni e la necessità di approfondire gli studi, soprattutto in un’aula di giustizia, dove proprio l’uomo è il mezzo attraverso il quale le azioni di un altro uomo sono giudicate.

Importante, in ultimo, sottolineare la necessità di integrare scienza e giustizia affinchè sia possibile, all’interno di un processo, utilizzare i periti ed ogni disciplina utile ad arrivare ad una giusta e consapevole decisione che avvalli la sentenza.




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[1] Università degli Studi di Padova, Psicologia Clinica. [2] “A bat and a ball cost $1.10 in total. The bat costs a dollar more than the ball. How much does the ball cost?”

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