L’assistenza del consulente psicologo alle indagini difensive dell’avvocato: l’esame testimoniale
Dott.ssa Chiara Vercellini
Laureata in Psicologia
Tutor di riferimento:
Dott.ssa Ylenia Manni
Abstract
Il presente lavoro indaga il contributo che il consulente psicologo può fornire all’avvocato durante
la fase delle indagini difensive. In relazione alla legge 397/2000, che disciplina tale materia, viene
presentato l’ambito operativo dell’esperto in psicologia della testimonianza e, alla luce di ciò, è
illustrato un caso reale, in cui il contributo del consulente tecnico è stato determinante.
Introduzione
Sono esploratori cattivi quelli che pensano che non ci sia terra se vedono solo il mare. Francis Bacon
In Italia, la figura dello psicologo esperto in psicologia giuridica, che lavora nel campo investigativo
è ancora guardata con diffidenza (Gulotta, 2008), sia da parte degli appartenenti alle forze
dell’ordine (Volpini, Tucciarone, De Leo, 2006), sia da parte degli attori (avvocati e giudici) del
procedimento giudiziale (Rossi, Zappalà, 2005). Attualmente, la psicologia viene vista, per lo più,
come disciplina utile alla formazione, selezione e sostegno degli investigatori; oppure impiegata in
ambito forense, con fini peritali e valutativi. Non è ancora percepita una sua utilità, con un ruolo
attivo e stabile di uno psicologo all’interno del team investigativo (Gulotta 2008).
In realtà, sia i campi applicativi della psicologia al settore criminologico e giudiziario, sia i suoi
metodi possono rivelarsi numerosi e di notevole interesse, trovando sempre più ampie possibilità di
utilizzo. Per esempio, uno degli ambiti che maggiormente può sfruttarne i contributi è quello
investigativo, ambito che, soprattutto negli ultimi decenni, ha avuto un forte input e una forte
risonanza, anche a livello pubblico, soprattutto grazie alle analisi condotte, negli Stati Uniti, dal
Federal Bureau of Investigation (Picozzi, Zappalà, 2002). Ma non si deve dimenticare che già
alcuni primissimi studi di psicologia giudiziaria italiani presentavano alcune brillanti intuizioni sul
tema. Basti ricordare, ad esempio, l’opera di F. Ferracuti, “Appunti di psicologia giudiziaria”
(Scuola Ufficiali Carabinieri, 1959), in cui l’autore accennava agli errori di valutazione in cui può
incorrere l’esaminatore della scena del crimine in base ai suoi processi psichici.
La figura dello psicologo, infatti, nel mondo giuridico e forense, può essere investita di ruoli
diversi. Ad esempio, nelle aule di tribunale, lo si può trovare impegnato nel ruolo perito (anche per
le audizioni protette, in particolare quando siano coinvolti soggetti minorenni) e lo si ascolta come
consulente tecnico d’ufficio e/o di parte e come teste. In ambito carcerario, d’altro canto, lo
psicologo può essere l’esperto per la valutazione, il sostegno e/o il trattamento dei detenuti (esperto
ex art. 80 Legge 354/75). Infine, ma non ultimo, gli psicologi impegnati in ambito di ricerca e di
formazione hanno il compito di studiare l’applicazione della psicologia alla legge, le conseguenze
della violenza sulla psicologia delle vittime, gli autori di reato e la loro psicologia/comportamento,
la psicologia della giuria e la psicologia della testimonianza. Tutto ciò, insieme allo studio della
credibilità e della menzogna, può rappresentare una parte degli strumenti che gli psicologi,
impegnati in ambito giuridico e forense, utilizzano.
Inoltre, con l’entrata in vigore della legge 397/2000 (Attività investigativa del difensore), l’avvocato
si trova nella situazione di evolversi e di cimentarsi nell’attività investigativa, ambito per lui nuovo,
per affrontare al meglio i momenti decisionali delle scelte processuali. Deve, inoltre, saper sfruttare
quelle conoscenze tecniche e cognitive che gli consentano di rispondere alle nuove necessità
professionali e di indagine (Gulotta, 2003). In merito a ciò, la suddetta legge si rivela decisamente
utile ed utilizzabile nel concreto, in particolare attraverso la presenza di consulenti e esperti in
materia investigativa e nelle scienze forensi, i quali si ritrovano ad operare in un ruolo con funzione
investigativa.
Date queste premesse, pertanto, non si può non pensare allo psicologo quale esperto in scienze
forensi, criminali, investigative che possa trovare uno spazio nella fase di indagine di un
procedimento penale e di come il lavoro da lui svolto possa poi potenzialmente essere utilizzato e
trovare spazio nel giudizio vero e proprio.
Scopo del presente lavoro, quindi, è fornire uno stimolo, una proposta da cui partire per osservare il
ruolo dello psicologo nel mondo delle investigazioni, con particolare riferimento all’ambito
operativo del consulente tecnico in ausilio alle indagini difensive che l’avvocato può svolgere al
fine di trovare elementi di prova a favore del suo assistito.
La psicologia investigativa, infatti, sfrutta “differenti strumenti per rispondere, in relazione ad
eventi umani, a domande di questo tipo: «Cosa è successo?» «Cosa sta succedendo?» «Cosa
potrebbe succedere?» «Come?» «Perché?»” (Gulotta e coll., 2000). La metodologia delle indagini
riguarda sì le persone, i sospetti autori di reato, ma soprattutto deve esaminare le situazioni umane
ed interpersonali (Jorgesen, 1989). E la ricerca investigativa, oltre ad avere lo scopo di trovare le
prove, ha anche la funzione di descrivere e spiegare (Gulotta, 2008). Inoltre, come affermano nel
loro lavoro Volpini, Tucciarone e De Leo (2006), la psicologia investigativa può dimostrarsi utile
per risolvere, o comunque ridurre, le carenze e gli errori, spesso presenti nel campo
dell’investigazione.
Tutto ciò può essere ben riassunto affermando che:
“Lo psicologo-investigatore e lo psicanalista sono come archeologi che raccolgono frammenti
sparsi e stabiliscono un collegamento fra la realtà che non c’è più e la realtà soggettiva del
paziente o dell’autore del reato” (Gulotta, 2008).
Le indagini difensive
Premessa
Le indagini difensive, ovvero il diritto di difendersi provando.
Tale diritto è uno dei principi cardine e maggiormente significativi, non solo di un ordinamento
processuale penale di stampo accusatorio, ma anche di ogni ordinamento che voglia essere
garantista e rispettoso del diritto alla difesa, nonché del principio del contraddittorio.
Un primo cenno di questa legge si ritrova nell’art. 38 disp. att. c.p.p. (Facoltà dei difensori per
l’esercizio del diritto alla prova), ora abrogato, ma la codificazione delle indagini difensive è stata
introdotta dalla legge 397 del 7 dicembre 2000, nel libro quinto del codice di procedura penale
(Indagini preliminari e udienza preliminare), più precisamente all’articolo 327bis (Attività
investigativa del difensore) e nel nuovo titolo VI bis, contenente gli articoli dal 391bis al 391decies,
che ne disciplinano l’oggetto, le modalità e i termini.
La ratio si configura sia nell’estensione delle garanzie e per la realizzazione del principio di parità
tra le parti del procedimento, sia nella ricerca e nell’individuazione di elementi di prova, attraverso
le modalità previste dal codice, affinché possano essere introdotti nel processo penale.
Si evidenzia, in questo modo, il radicale cambiamento di metodologia di difesa che il codice
Zanardelli (1989) propone, rispetto al codice Rocco del 1930: una difesa attiva, a partire dalla fase
pre-processuale delle indagini preliminari, e non più una difesa passiva di attesa delle mosse del
pubblico ministero, evidenziando, così, l’aspetto “dinamico” della difesa. Al difensore vengono
attribuiti molteplici poteri investigativi, che precedentemente erano riconosciuti esclusivamente alla
pubblica accusa e sono imposte delle chiare regole di documentazione delle attività difensive svolte.
Tutto ciò al fine di garantire un grado di affidabilità pari a quello relativo ai risultati delle indagini
che la pubblica accusa pone al vaglio del giudice.
1. La normativa
1.1 L’incarico professionale, i termini e il mandato
L’art. 327bis fa riferimento all’incarico professionale, sancendo, attraverso il primo comma che il
difensore (sia di fiducia che d’ufficio) ha la facoltà di svolgere investigazioni al fine di ricercare ed
individuare elementi di prova a favore del proprio assistito, nel rispetto delle forme e degli scopi
indicati dalle disposizioni contenute nel titolo VI bis del libro V del codice. Il secondo comma,
invece, stabilisce che questo incarico può aver luogo in ogni stato e grado del procedimento ed,
esaurito il processo, in fase di esecuzione penale e per promuovere un giudizio di revisione. Il terzo
comma, infine, specifica che il difensore ha la possibilità di delegare, con apposito incarico,
l’attività di indagine difensiva, o parte di essa, ad un suo sostituto, ad un investigatore privato
autorizzato o, nel caso siano necessarie specifiche competenze, ad un consulente tecnico.
È certo, però, che l’unico soggetto titolare del diritto alle investigazioni rimane il difensore, avendo
la responsabilità per la direzione e il controllo delle indagini difensive, anche quando queste
vengono svolte da suoi incaricati (Triggiani, La l. 7 dicembre 2000 n. 397: prime riflessioni, in
Cass. pen. 2001, 2274).
Infine, data la genericità dell’ art 327bis, che parla semplicemente di “assistito”, si può affermare
che tutte le parti private nel processo penale possono avvalersi delle investigazioni difensive.
Sempre il comma 1 del citato articolo, prevede che l’avvocato difensore, che intenda svolgere
indagini a favore del proprio assistito, debba essere officiato da quest’ultimo con un apposito
mandato, risultante da atto scritto. Non vengono, però, richieste particolari formalità per il rilascio
di tale mandato e non vengono prescritte speciali indicazioni riguardo il suo contenuto. Il mandato,
pertanto, dovrà essere rilasciato nel rispetto dell’art. 96 c.p.p., cioè con atto sottoscritto
dall’assistito. Dovrà essere trasmesso all’autorità giudiziaria a cura del difensore; oppure, la nomina
potrà risultare dal verbale dell’attività compiuta dall’autorità giudiziaria, dinnanzi alla quale il
difensore è stato nominato, verbalmente, dall’interessato.
Il comma 2 dell’art. 391nonies (Attività investigativa preventiva), inoltre, prevede che, nel caso in
cui sussista l’eventualità che si instauri un procedimento penale, l’avvocato ha facoltà di svolgere
indagini preventive, avendo ricevuto apposito mandato dal proprio cliente. Tale mandato viene
rilasciato dall’interessato con la sottoscrizione autenticata e con l’indicazione del difensore
nominato e dei fatti ai quali la nomina si riferisce.
Le modalità operative
Per quel che riguarda, invece, le modalità operative di tale mandato, sempre nel primo comma si
può leggere che il difensore può avvalersi “delle forme e per le finalità stabilite nel titolo VI bis”.
Dalla lettura degli art. 391bis, 391ter, 391quater, 391 sexies e 391nonies, si desume che le attività
investigative di indagine previste dal codice si concretizzino nell’assunzione di informazioni, nella
richiesta di documentazione alla pubblica amministrazione, nella possibilità di accedere a luoghi
anche se privati o non aperti al pubblico e di documentare l’attività di sopralluogo svolta, nella
possibilità di formare la documentazione di atti ed accertamenti tecnici non ripetibili destinati a
confluire nel fascicolo del dibattimento. Le “forme” cui il legislatore si riferisce sono quelle
previste per ogni attività, intese come le modalità di svolgimento definite per ciascuna delle attività
tipizzate. Ad esempio, se si vorrà procedere all’assunzione di informazioni, lo si dovrà fare nel
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rispetto delle prescrizioni contenute nell’art. 391bis, per accedere in luoghi privati occorrerà
procurarsi il consenso della persona che ne ha la disponibilità, ovvero un’autorizzazione del
giudice, ecc. È, comunque, ipotizzabile, che sia possibile che il difensore scelga modalità di
esplicazione della propria attività investigativa anche al di fuori dei moduli stabiliti dal suddetto
libro (e dunque, potrà svolgere pedinamenti, appostamenti, individuazioni di persone e cose ecc.)
fermo il divieto alla coercizione della volontà privata e alla limitazione dei diritti inviolabili della
persona (Bosco, 2005).
1.3 Gli elementi di prova a contenuto dichiarativo
È facilmente deducibile che l’atto investigativo tipico del difensore sia costituito dall’assunzione di
informazioni. L’avvocato, attraverso il conferimento con persone in grado di riferire sui fatti di
causa, acquisisce notizie attraverso un colloquio non documentato (facoltà che sussiste anche per gli investigatori privati autorizzati e per i consulenti tecnici nominati dall’avvocato o dal sostituto).
Sono previste tre modalità per raccogliere le informazioni: il colloquio, la richiesta di dichiarazione
scritta e la richiesta di informazioni da verbalizzare (art. 391bis).
Il colloquio costituisce un primo contatto informale con la persona da ascoltare. È un atto
preliminare, i cui risultati non possono venire utilizzati in sede processuale. Ha lo scopo di
verificare quali circostanze la persona conosca, se essa sia credibile e se, eventualmente, sia
necessario formalizzare il contenuto del colloquio con una richiesta di dichiarazione scritta o con un
ascolto verbalizzato. Il colloquio non viene vincolato ad un preciso contesto spaziale, tanto è che il
Giudice per le indagini preliminari può autorizzare il difensore a comunicare anche con un soggetto
detenuto, altresì se coimputato, previo avviso al suo difensore, e che il colloquio può essere svolto
oralmente o essere documentato. Sono, poi, stati previsti alcuni adempimenti essenziali per il
difensore, sanzionati dall’inutilizzabilità del materiale raccolto in violazione di legge. Si tratta di
oneri informativi: sulla qualità di difensore e sullo scopo del colloquio, sulla possibilità di tacere o
riferire per iscritto o di conferire oralmente (con o senza documentazione ), sul divieto di rivelare
quanto eventualmente già chiesto dalla Polizia Giudiziaria. o dal PM e sulle responsabilità in caso
di mendacio. Inoltre, la persona informata dei fatti ha l’obbligo di dichiarare l’eventuale qualità di
coindagato o coimputato, ma potrà avvalersi della garanzia ex art. 63 c.p.p., che dispone sugli
interrogatori resi dinnanzi all’autorità giudiziaria o alla polizia giudiziaria.
Per fare in modo che il colloquio risulti credibile e affidabile e che l’atto sia compiuto scevro di
inquinamenti probatori, vige il divieto all’indagato, all’offeso ed alle altre parti private di assistervi.
Infine, l’avvocato, o il sostituto, hanno l’obbligo di interrompere l’assunzione di informazioni nel
momento in cui la persona, di cui all’assunzione, sia persona imputata o sottoposta ad indagini,
ovvero emergano indizi di reità a suo carico. In questo caso, le dichiarazioni eventualmente assunte
non possono essere utilizzate contro colui che le ha rese, in quanto verrebbe violato il diritto di
assistenza obbligatoria al difensore.
Se il colloquio informale ha permesso di venire a conoscenza di informazioni utili al proprio
assistito, è possibile richiedere una dichiarazione scritta, che deve essere firmata dal dichiarante,
deve essere autenticata dal difensore o da un suo sostituto e ad essa va allegata la relazione del
legale. Il difensore, per la redazione del verbale, può farsi assistere da persone di sua fiducia.
La seconda opzione è richiedere che la persona informata dei fatti sia formalmente ascoltata per
rendere informazioni da inserire in un apposito documento (art. 391bis, comma 2). Va però
specificato che queste ultime due alternative sono possibili anche in assenza di colloquio informale,
ma che possono essere compiute solamente dal difensore e dal suo sostituto, non dall’investigatore
o dal consulente. Questi, però, hanno la possibilità di assistere, in veste di ausiliari, alla redazione
dei verbali.
L’utilizzazione della documentazione delle investigazioni difensive
Merita sicuramente anche un accenno il regime di utilizzo delle indagini difensive, sia come
previsto dall’art. 391decies (Utilizzazione della documentazione delle investigazioni difensive), sia
in riferimento ai principi generali del codice di procedura penale.
È evidente che il risultato delle indagini difensive arriverà a dibattimento solo a determinate
condizioni e con specifiche modalità. Nell’attuale processo penale la prova si forma in aula, nel
contraddittorio fra le parti. I risultati delle indagini, quindi, entreranno nel processo solo in questo
modo. E lo stesso vale anche per il materiale delle indagini difensive e delle indagini preventive.
Il fascicolo del difensore (art. 391octies), infatti, verrà integrato a quello del PM (art. 433 c.p.p.),
salvo alcune ipotesi. Di fatto, solo nel caso degli atti irripetibili le indagini del difensore potranno
entrare nel fascicolo per il dibattimento (art. 431 c.p.p.), cioè il solo fascicolo di cui il giudice avrà
cognizione nel processo. Negli altri casi, gli atti di indagine sono utilizzabili ai sensi e nei limiti
indicati dagli art. 500 c.p.p. (contestazioni nell’esame testimoniale) e 513 c.p.p. (lettura delle
dichiarazioni rese all’imputato nel corso delle indagini preliminari o nell’udienza preliminare).
Il ruolo del consulente tecnico
Prima della legge 397/2000
Prima dell’entrata in vigore della legge 397/2000, il nostro Codice prevedeva disposizioni
riguardanti le figure del perito, nominato dal giudice, e del consulente, nominato dal Pubblico
Ministero e dalle parti private. Si tratta di esperti che affiancano il lavoro delle parti del processo
(libro terzo titolo II) ed è possibile ricorre al loro ausilio durante tutta la fase delle indagini
preliminari.
Quando si rende necessario svolgere indagini o acquisire dati o valutazioni che richiedano
specifiche competenze tecniche, scientifiche o artistiche, il giudice ha la possibilità, scegliendo fra
gli iscritti agli appositi albi o tra persone fornite di particolare competenza in una specifica
disciplina, di nominare un perito, il quale ha il compito di redigere una relazione peritale che
risponda ai quesiti che gli sono stati posti, attraverso le attività regolamentate dall’art. 288 c.p.p.
(Attività del perito). Le parti, invece, hanno facoltà di nominare dei propri consulenti tecnici, anche
nei casi in cui non sia stata disposta una perizia.
Per quel che riguarda, invece, il momento prettamente investigativo, l’esperto veniva previsto o
quando le operazioni della Polizia Giudiziaria richiedevano specifiche competenze tecniche (art.
348 c.p.p.) o se il PM aveva necessità di procedere ad accertamenti, rilievi segnaletici, descrittivi o
fotografici o ad ogni altra operazione tecnica per cui fossero necessarie specifiche competenze (art. 359 c.p.p.).
È lampante che l’utilizzo degli esperti in fase investigativa era prerogativa riservata agli organi
inquirenti, la Polizia Giudiziaria e la Pubblica Accusa. Le altre parti potevano partecipare al
momento investigativo, con consulenti di loro fiducia, solo nel caso in cui gli accertamenti, di cui
all’art. 359 c.p.p., avevano le caratteristiche degli accertamenti non ripetibili (art. 360 c.p.p.).
A tale proposito, sembra utile considerare che nel codice Zanardelli veniva completamente ignorato
l’istituto dell’indagine difensiva. Questo era delineato, solo in maniera ridotta, nel testo definitivo
dell’art. 38 delle norme di attuazione, coordinamento e transitorie del Codice di Rito penale. Questo
articolo, effettivamente, consentiva, al difensore e all’investigatore privato, soltanto la possibilità di
conferire con le persone informate sui fatti, non di acquisirne le dichiarazioni, informazioni ovvero
documenti utili alle indagini.
Nel codice attuale
Grazie alla modifica che l’art. 5 (attraverso i commi 1bis e 1ter) della legge 397/2000 fa dell’art.
233 c.p.p, il ruolo del consulente tecnico, in sede extraperitale e investigativa, si connota per aspetti
e ambiti nuovi. Può, come prima cosa, esaminare i beni sequestrate nel luogo in cui si trovano. Ha
la possibilità, cioè, di ispezionare, previa autorizzazione successiva al sequestro, le cose in oggetto
del sequestro stesso, senza però poterle rimuoverle (art. 253, Oggetto e formalità del sequestro; art.
254, Sequestro di corrispondenza; art. 255, Sequestro presso banche).
Ha, poi, la possibilità di intervenire alle ispezioni, ovvero ad esaminare l’oggetto delle ispezioni alle
quali il consulente non è intervenuto. Infine, è prevista la possibilità di esaminare, in un momento
successivo all’esame del PM, un oggetto, nel caso in cui la nomina del difensore o del consulente
sia stata tardiva rispetto ai tempi previsti dal codice (art. 364, nomina e assistenza del difensore).
Non bisogna, poi, dimenticare, la possibilità, per il consulente di avviare o partecipare alle eventuali
attività di indagine preventiva, nel caso in cui si ipotizza che possa instaurarsi un procedimento
penale.
Il comma 3 dell’art. 327bis è alquanto lacunoso per quel che riguarda l’incarico al sostituto,
all’investigatore privato autorizzato o al consulente tecnico, poiché non è prevista alcuna specifica
forma. In particolare, riguardo alla figura del consulente tecnico, si può osservare che il riferimento
alle specifiche competenze, che potrebbero rendere necessario l’incarico al consulente tecnico,
serve a chiarire che il difensore ricorrerà all’ausilio di un consulente tecnico quando il compimento
di un atto presuppone speciali conoscenze (Brichetti, Randazzo, 2000).
Il consulente psicologo
Premessa
Le possibili applicazioni della scienza psicologica al campo criminologico e giudiziario sono
numerose e si possono trovare nel settore investigativo già da molto tempo. Basti pensare, ad
esempio, agli studi del torinese Cesare Lombroso, che contribuì allo sviluppo di questo ramo della
scienza, sfruttando i contributi delle discipline comportamentali e della psicologia, studiando lo
sviluppo del pensiero criminologico.
La psicologia investigativa, però, non si configura esclusivamente come un settore di studio e di
ricerca all’interno della cultura giuridica, ma il suo supporto può essere utilizzato a diversi livelli.
Ad esempio, sopratutto in ambito investigativo, fornisce strumenti adeguati per ottenere
informazioni da luoghi e situazioni che vanno osservati con occhio tecnico, in particolare nel
momento in cui è necessario incontrare le persone implicate, quali, ad esempio, le vittime, i
testimoni, gli autori di reato e le persone informate sui fatti.
Negli ultimi anni, poi, si è sviluppato un dibattito sul ruolo della psicologia, intesa come disciplina
in grado di offrire metodi e strumenti utilizzabili in senso investigativo.
Nel Regno Unito, il professor David Canter, fondatore, presso l’Università di Liverpool, del primo
centro di Psicologia Investigativa, ha coniato il termine “investigative psychology”, con il quale
intende l’uso della psicologia nel processo investigativo e, più in generale, nell’attività di Polizia
Giudiziaria. La psicologia investigativa di Canter studia come reperire, valutare e utilizzare in modo
efficace l’informazione investigativa, come supportare le azioni e le decisioni delle Forze di Polizia
e le inferenze che si possono trarre dall’attività criminale.
Nel nostro paese, invece, il professor Guglielmo Gulotta usa questa espressione per indicare lo
studio dei fenomeni sociali. La psicologia investigativa, in questo senso, viene intesa come “una
metodologia investigativa rivolta allo studio delle persone nelle situazioni sociali e dei fenomeni
nel loro contesto naturale” (Gulotta, 2003) e, di conseguenza, è possibile considerare la psicologia
investigativa forense come “l’applicazione della metodologia investigativa al crimine”, inteso come
fenomeno sociale particolare (Gulotta, 1993a, 2000).
Ne deriva che sono due i suoi possibili ambiti di intervento: non solo serve ad indagare ciò che si
ignora (ad esempio stabilire l’identità dell’autore sconosciuto di un crimine ed il suo modus
operandi, collaborare alle indagini per morte equivoca e autopsia psicologica, ecc), ma la psicologia
investigativa può essere anche utilizzata per interpretare, sotto il profilo psicosociale, una condotta
umana, al fine di valutare la responsabilità, capire il perché e le circostanze psicologiche di un
determinato evento criminoso (Gulotta 2008).
1. La figura del consulente psicologo in campo investigativo
Sulla base di queste definizioni, quindi, è possibile definire lo psicologo come “un detective che
indaga i fenomeni sociali con metodo quasi giudiziario e congettura i fatti basandosi sul paradigma
indiziario” (Ginzburg, 1983, in Gulotta 2008).
Si è visto che, con l’introduzione della legge 397/2000, l’avvocato difensore ha la necessità di
apprendere e, soprattutto, sfruttare quelle tecniche che gli consentano di rispondere alle nuove
richieste e alle nuove necessità che dovrà affrontare in sede di indagini investigative (Gulotta, 2003)
e che può, a tal fine, avvalersi delle competenze, delle conoscenze e delle capacità proprie del
consulente psicologo. Difatti, grazie all’articolo 391bis c.p.p., all’esperto di psicologia forense
vengono riconosciuti compiti connessi alla ricerca di fonti di prova ed egli ottiene, quindi, in questa
fase, un ruolo decisamente più partecipe, costruttivo e dinamico, rispetto alla sola attività di
consulente tecnico, in supporto alle indagini difensive delle parti private (De Leo, Volpini,
Tucciarone, 2006).
Sono molteplici i casi in cui la consulenza dello psicologo, qualificato in psicologia forense e
investigativa, costituisce un valido strumento (De Leo, 2006).
Egli, ad esempio, può collaborare efficacemente nelle fasi di sopralluogo ed accertamenti tecnici,
poiché in grado di esaminare i fatti alla luce della sua preparazione specifica (analisi dell’ambiente
e del modus operandi, firma, ecc…).
Ha le capacità, altresì, per fornire un importante supporto sia nella fase di arresto del presunto
autore di reato, rivolgendo l’attenzione alle reazioni immediate e spontanee del soggetto ed,
eventualmente, all’analisi dell’ambiente proprio del soggetto stesso, per poter raccogliere
informazioni utili ai fini investigativi, nonché interrogando le persone presenti; sia per contribuire
alla difesa dell’indagato, ricercando elementi a discarico, eventualmente a carattere psicologico
(profiling, case linkcage…) (Rossi, 2005).
In particolare, il consulente psicologo può fornire un contributo rilevante per la raccolta delle
testimonianze durante la fase delle indagini ed è in grado di fornire consulenza nella scelta della
strategia forense e di interrogatorio applicabile in relazione al crimine investigato e al sospettato o
indagato (Rossi, Zappalà, 2005).
Come si è visto, infatti, gli articoli 391 bis/decies c.p.p., attribuiscono un ruolo importantissimo alle
attività inerenti il contatto con i potenziali testimoni (“conferire con le persone in grado di riferire
circostanze utili ai fini dell’attività investigativa”), poiché, nell’ambito delle attività investigative
difensive, la raccolta delle informazioni, sia dal possibile autore dell’atto, sia dalle dichiarazioni
testimoniali, rappresenta una della maggiori fonti dei dati delle investigazioni (Gulotta, 1993),
poiché permette di ottenere e raccogliere notizie di grande rilevanza investigativa, quali dati e
indizi, e di classificare i diversi aspetti della vicenda per cercare di fare chiarezza sui fatti oggetto di
indagine. L’intervista investigativa, inoltre, può essere impiegata per ottenere una confessione, per
provocare un’ammissione di colpevolezza o di complicità, per verificare elementi provenienti da
altre fonti di prove e può servire anche a preparare alcuni soggetti all’interrogatorio e per preparare
l’interrogatorio di alcuni soggetti (Lavorino, 2000).
L’ascolto del testimone rappresenta, quindi, un momento fondamentale per l’indagine investigativa,
soprattutto in fase di raccolta degli elementi di prova.
2. La normativa sull’assunzione delle sommarie informazioni
Il Codice di Procedura Penale, attraverso gli articoli 350 e 351, disciplina l’assunzione delle
sommarie informazioni, che possono essere rese sia dalle persone sottoposte alle indagini sia dalle
persone informate sui fatti. Si tratta di un atto tipico delle indagini preliminari, finalizzato ad
assumere informazioni utili per le investigazioni, mentre l’interrogatorio (svolto dal PM a carico
dell’imputato), la testimonianza (mezzo di prova che garantisce l’oralità e il diritto al
contraddittorio, svolto in dibattimento, a carico di coloro che nella fase precedente erano dette
persone informate e che in questa fase assumono la dicitura di testimoni) e l’esame (mezzo di prova
esperibile in dibattimento e che riguarda la dichiarazione resa da una persona in qualità di parte
processuale) rientrano nella fase dibattimentale.
Come si può vedere, le differenze dipendono dal soggetto che vi è sottoposto o dalla persona che li
pone in essere (Rossi, Zappalà, 2005). Il legislatore, in particolare, prevede tre possibilità, per quel
che riguarda l’assunzione di informazioni da parte dell’indagato (art. 64 c.p.p.: assunzione di
sommarie informazioni, assunzione di sommarie informazioni sul luogo ovvero nell’immediatezza
del fatto, ricezioni di dichiarazioni spontanee).
Con l’art. 351 c.p.p. viene sancita l’acquisizione di informazioni da una persona, informata sui fatti
(vengono applicate le regole previste in tema di prova testimoniale), che non ha la qualifica di
indagato e che possa permettere di ricostruire lo svolgimento degli eventi e stabilire una relativa
verità processuale.
È necessario che l’acquisizione delle informazioni avvenga, in ogni fase dell’indagine, in maniera
ineccepibile, al fine di garantirne la piena utilizzabilità in fase processuale. Ciò richiede il rispetto
degli articoli del c.p.p. (in particolare dell’art. 188, il cui obiettivo è il rispetto della corretta
modalità con cui la confessione è stata raccolta e di come dovrà essere poi documentata in fase
processuale) che disciplinano le modalità di assunzione delle informazioni. Ovviamente, secondo il
c.p.p. le dichiarazioni non possono essere forzate, né estorte con minacce o violenze.
3. La psicologia della testimonianza
Si è detto che la testimonianza rappresenta una delle principali fonti di prova all’interno del
processo penale e che il suo scopo è chiarire i fatti oggetto di indagine.
Nel 1939, Stern definì la testimonianza come “la riproduzione verbale o scritta di contenuti
mnemonici, che fanno riferimento ad una particolare esperienza o ad un certo evento esperito”.
A livello teorico, inoltre, è possibile sostenere che l’intervista investigativa è “il mezzo attraverso il
quale due o più persone danno luogo a uno spazio comunicativo, generalmente co-regolato dai
parlanti, in cui la qualità della comunicazione dipende da fattori come la relazione in gioco e la
situazione contingente” (De Leo, Scali e Caso, 2005).
Le interviste e i colloqui hanno luogo, durante la fase investigativa, in diversi momenti e
coinvolgono non solo i testimoni, che rappresentano uno dei ruoli chiave di ogni processo penale,
ma anche le vittime e i sospettati.
Lo studio psicologico del processo testimoniale, di conseguenza, offre una specifica utilità legata
alla possibilità di conoscere le fonti di interferenza e le deformazioni più frequenti, che possono
generare discrepanze tra la realtà obiettiva dei fatti e la loro rievocazione da parte del soggetto.
Difatti, la testimonianza è condizionata da vari processi psichici, che entrano in azione quando il
futuro testimone si trova ad osservare, oppure viene a conoscenza di un fatto, e agiscono anche
durante la rievocazione del fatto stesso.
È utile, infatti, specificare che è molto diverso aver osservato direttamente un fatto (testimonianza
di primo grado) ed esserne venuti a conoscenza indirettamente, magari attraverso narrazioni di altri
(testimonianza di secondo grado). In quest’ultimo caso, il soggetto, in genere, espone la
rappresentazione che si è fatto di quanto è accaduto, sulla base della narrazione udita, deformando, quindi, il fatto che gli è stato riferito.
La testimonianza
Il processo testimoniale è un evento complesso che consiste nell’esposizione e nella
rappresentazione dei fatti vissuti, osservati, o riferiti (Lavorino, 2000). Questo processo si verifica
attraverso quattro funzioni psicologiche di base: la fissazione, che è quello stadio in cui lo stimolo
arriva al sistema nervoso centrale; la ritenzione, che consiste nella conservazione dello stimolo così
percepito; la rievocazione, cioè il richiamare alla memoria il materiale ritenuto ed infine, il
riconoscimento, cioè l’identificazione di tale materiale.
Schacter (1996) sostiene che il processo di codifica e il ricordo sono inseparabili, poiché “si ricorda
soltanto ciò che si è codificato e ciò che viene codificato dipende da chi siamo, dalle nostre
esperienze passate, dalle nostre conoscenze, dai nostri bisogni”.
3.2 I fattori di influenza
La testimonianza dipende dalla memoria e da molti altri fattori, meccanismi e processi psicologici,
sia esterni che interni al soggetto, i quali possono distorcerne il contenuto, in misura più o meno
rilevante (Rossi, 2005). Esserne a conoscenza è l’unico modo per eliminarli o ridurli o, quanto
meno, tenerne conto nella valutazione della testimonianza.
Schematizzando (Gulotta, 2008), si può dire che essi possono essere così suddivisi:
- durante la codifica: la durata dell’esposizione, la qualità percettiva dell’evento, la distintività
dell’evento, l’attenzione allocata, l’intenzionalità della memorizzazione, la profondità
dell’elaborazione, i processi costruttivi, lo stress e gli stati emotivi;
- durante l’immagazzinamento: il passaggio del tempo dalla percezione all’evento, l’organizzazione
gerarchica, le ripetute narrazioni e rievocazioni dell’evento, le informazioni successive alla codifica
dell’evento, l’impianto di false memorie, gli indizi per il recupero, il contesto, i processi
ricostruttivi;
- durante il monitoraggio: il contenuto della memoria, la fluidità percettiva, la fluidità di richiamo;
- durante il controllo: la motivazione e i fattori pragmatici, la formulazione delle domande, l’utilizzo
di domande suggestive, la rievocazione e il riconoscimento, la sensibilità al controllo, lo stato
mentale.
Lavorino (2000), d’altra parte, sostiene che gli elementi discriminanti della testimonianza sono sette
e che essi devono essere valutati e considerati:
1) l’errore di memoria o altre condizioni psico-fisiopatologiche: è sufficiente un’interferenza o
un’alterazione in una fase della memoria perché essa venga distorta
2) l’inadeguatezza percettiva: per fattori fisici, fisiologici o cognitivi
3) la distorsione causata dalle variabili soggettive: aderenza alla realtà; soggetto suggestionabile;
assenza o presenza di patologie di varia natura; caratteristiche delle singole culture, razze o genere;
capacità cognitiva; capacità espressiva e del linguaggio; capacità ed efficienza mestica;
coinvolgimento personale ed emotivo nel fatto criminoso; coinvolgimento personale nell’indagine,
in quanto schierato o con pregiudizio; efficienza dell’organismo nell’ambito delle attività fisiche e
psichiche; motivazioni della testimonianza e ruolo nella vicenda; resistenza allo stress fisico e
psicologico; tipo di personalità e sicurezza personale
4) le variabili del percorso testimoniale: azioni esterne, eventi casuali, eventi interconnessi, eventi
obbliganti, eventi del procedimento investigativo e giudiziario, scambio di idee e considerazioni con
terzi, possibilità che le variabili ambientali post testimonianza possano aver interferito sulla
testimonianza stessa e quindi averla distorta (azione dei media, presa d’atto delle implicazioni,
conseguenze sugli altri e sui rapporti con gli altri, effetti di feed-back, effetti sulle relazioni familiari
e sociali, variazioni dello stile di vita)
5) le variabili del contesto: il contesto (ambiente, territorio, posizione, atteggiamenti,
comportamenti, metodiche interlocutorie, clima psicologico, ecc) in cui avviene la testimonianza;
l’obbligo civico e legale di non tacere o omettere nulla e “di dire tutta la verità”, con il conseguente
bisogno del teste di voler dare l’impressione di essere attendibile e credibile; l’obbligo di non dire
cose contrastanti con ciò che è già stato assodato e che è agli atti (il timore di contrastare con le tesi investigative); la minaccia della sanzione o di una persecuzione da parte dell’autorità; l’impegno
sociale e civico che contrasta con la mentalità, le tradizioni e l’ideologia del soggetto; la
responsabilità sociale e legale; le conseguenze penali, sociali, economiche e psicologiche sugli altri
di quel che si dichiara; le reazioni dell’ambiente familiare, di lavoro, di amicizie e di interessi
6) la tipologia della menzogna: può essere causata da fattori psicologici, fattori evolutivi, fattori
socio-culturali, come, per esempio, ammettere un’emozione indicandone una falsa causa al fine di
sviare i sospetti, esporre la verità in maniera così esagerata o umoristica con lo scopo di trarre in
inganno il destinatario, dissimulare a metà ammettendo solo una parte di verità per sviare l’interesse
dell’interlocutore da ciò che viene celato, dire la verità ma in modo da lasciare intendere l’esatto
contrario
7) la possibilità di bugia psicopatologica o mitomania: il bugiardo patologico è un soggetto insicuro
che, per gestire la relazione con l’altro, può agire solo in termini fantastici alterando la realtà dei
fatti: si parte dal semplice nevrotico fino alla patologia grave, che compromette la capacità di
discernimento fra realtà oggettiva e proprie produzioni fantastiche. Il mitomane, invece, altera i fatti
con lo scopo di mettersi al centro dell’attenzione, mantenendo, però, intatto il contatto con la realtà.
Riassumendo, si può, quindi, affermare che la qualità della testimonianza dipende dall’interazione
tra il contenuto della memoria, il contenuto dell’evento su cui si rendono dichiarazioni e i processi
decisionali relativi a cosa, come e perchè si riferisce (Mazzoni, 2003).
L’attendibilità
L’attendibilità di una testimonianza fa riferimento sia alla sua accuratezza (aspetti percettivi,
cognitivi e riproduttivi), sia alla sua credibilità (aspetti motivazionali, interesse personale,
desiderabilità sociale, voglia di compiacere, pregiudizi) (Gulotta, 2008).
Per quel che riguarda, l’accuratezza della testimonianza, è necessario tenere in considerazione il
rapporto che sussiste fra la realtà oggettiva, cioè ciò che si è veramente verificato, e la ricostruzione
soggettiva dei fatti compiuta dal soggetto, cioè ciò che egli ritiene di aver percepito (Loftus, 1999;
Gulotta 1987 e 2002; De Cataldo, 1988; Cavedon, 1992; Mazzoni, 1997 e 2000); mentre, per quel
che riguarda la credibilità, si deve far riferimento al rapporto tra la realtà soggettiva e la realtà
riferita, tenendo in considerazione gli aspetti motivazionali, l’interesse personale, la desiderabilità
sociale, la voglia di compiacere e i pregiudizi (Gulotta, 2000).
Proprio questo, infatti, rappresenta uno dei maggiori problemi relativi alla testimonianza e
all’investigazione, poiché esse riguardano non tanto quello che è successo, ma quello che viene
raccontato di ciò che è successo (Gulotta, 2008, Rossi, Zappalà, 2004).
Poiché, dunque, il ricordo di un evento è, in realtà, la sua ricostruzione, è necessario esaminare sia i
fattori che intercorrono prima dell’evento, sia quelli costituenti le fasi del processo mnestico e,
infine, le azioni ed i processi che accadono dopo l’evento e che potrebbero alterarne la ritenzione ed
il recupero (Petruccelli, Petruccelli, 2004).
In particolare, utilizzando il quadrato semiologico di Greimas, si evince che la testimonianza
dipende dal rapporto fra il dire ed il sapere, per cui, testimoniare significa “dire e sapere”, essere
reticente significa “sapere e non dire”, ignorare significa “non sapere e non dire” ed errare
significa “dire e non sapere” (Gulotta 2000, 2008).
Il ruolo dell’intervistatore
Da diverse ricerche (per esempio, Kassin S.M.J., Ellsworth e Smith) è emerso che la conduzione
adeguata di un colloquio facilita le indagini, poiché permette di ottenere più informazioni
sull’evento, senza distorcere il ricordo dei testimoni, creando eventualmente le condizioni
favorevoli per portare un sospettato a confessare il crimine commesso oppure a fornire dettagli
attendibili riguardo alla dinamica dell’evento o al coinvolgimento di terze persone (Gulotta, 2008).
Ne consegue che saper porre domande nel modo giusto è un requisito fondamentale per la
conduzione delle interviste e le conoscenze della psicologia forniscono un valido contributo nella
conduzione dei colloqui con il testimone, il presunto autore di reato e la vittima (Picozzi, Zappalà,
2005).
Una delle principali difficoltà della raccolta delle informazioni deriva dalla situazione di dipendenza
del testimone nei confronti di chi conduce il colloquio. Spesso, infatti, le persone, di fronte ad una
figura “autoritaria”, assumono, inconsapevolmente, uno stato emotivo che può facilitare la
suggestione, favorire lo stress o la paura di non essere creduti (Cannaviccii, 2006; Gulotta, 2008). Si
tratta di fattori che influenzano l’attendibilità della testimonianza ed è, quindi, necessario, per
l’intervistatore, conoscerli (Gulotta, 2003).
Pertanto, per condurre un’intervista che sia efficace, è necessario predisporre il contesto, affinché
risulti informale ed amichevole, mettendo il testimone a proprio agio e dandogli la sensazione di
non venir giudicato (De Leo, Scali, Caso, 2005; Gulotta, 2008). È indicato il colloquiare con calma
e con serenità, ragionando e riflettendo. Agire con aggressività o violenza, fino ad intimorire il
soggetto, non serve, sia perché vietato dalla legge, sia perché ai fini delle strategie psicologiche che
si vogliono utilizzare, è controproducente (Cannavicci, 2006).
La persona ascoltata, a qualsiasi titolo, deve essere invitata ad esporre spontaneamente quello che
sa, per ottenere una deposizione non influenzata dalle domande e dalle suggestioni. Le domande di
chiarimento, per colmare le lacune e per precisare meglio i fatti descritti potranno essere rivolte in
un secondo momento. Sarebbe meglio, per l’interrogante, usare un basso numero di parole e
formulare le domande in maniera accurata, verificandone la comprensione da parte del soggetto e, allo stesso tempo, controllare di aver compreso realmente le risposte. Vanno chiarire le regole del
colloquio, per evitare che il soggetto cerchi di compiacere l’intervistatore, inventando o cercando di
indovinare ed è utile sviluppare strategie per intensificare il desiderio di comunicare. È opportuno
ricercare ipotesi alternative, anziché cercare semplicemente di confermare l’idea iniziale, per non
condizionare il racconto o ignorare gli elementi che non si accordano alla teoria di partenza. È
anche importane cercare di controllare il proprio comportamento non verbale e, ad ogni modo,
dimostrare un’attenzione vigile, mantenendo il controllo oculare (Gulotta, 2008). È, comunque,
positivo sviluppare uno stile personale, tenendo in considerazione gli obiettivi e i limiti imposti
dalla legge, eventualmente al fine di poter creare idonei atti processuali.
Infine, vista l’importanza che rivestono le testimonianze come fonte di prova, si ravvisa la necessità
di utilizzare delle tecniche che consentano di valutare e migliorare la validità delle dichiarazioni
(Gulotta, 2008). Fra le diverse proposte esistenti, una delle modalità più conosciute ed efficaci per
interrogare è “l’intervista cognitiva”. Si tratta di una tecnica investigativa, simile all’interrogatorio,
attraverso la quale vengono utilizzate strategie di recupero guidato delle informazioni, cioè
particolari procedure create dagli psicologi sperimentali per migliorare la rievocazione della
memoria episodica. Un altro strumento che può essere impiegato è la “Statement validity
assessment”, che esamina le dichiarazioni degli adulti e si compone di un’intervista strutturata, di
un’analisi del contenuto basata su dei criteri e di una lista di controllo della validità.
Inoltre, durante il colloquio, è utile osservare attentamente gli atteggiamenti ed il comportamento
non verbale del soggetto intervistato (ad esempio, le reazioni insolite o l’ostentata indifferenza e
tranquillità, oppure la mimica, il pallore, il rossore, i tremori, ecc), sia in assenza di stimoli che in
risposta alle domande, per poterne ricavare indicazioni sul carattere del soggetto ed avere dei
riferimenti sul colloquio in corso: tanto più una domanda ottiene una risposta mimica e non verbale,
tanto più indica un punto che colpisce il soggetto ed è un utile elemento (Cannavicci, 2006). Si
tratta del campo applicativo della cinesica, cioè la disciplina che studia il linguaggio dei gesti, cioè
quel linguaggio inconsapevole, naturale e direttamente collegato con lo stato psicologico e, di
conseguenza, con lo stato emotivo.
Scoprire le menzogne
Uno dei punti cardine dell’attività investigativa è, per l’appunto, smascherare le menzogne. Si deve,
però, precisare che “mentire non significa dire il falso ed essere sincero non significa dire il vero”
(Gulotta, 2008). Infatti, facendo riferimento al “quadrato della veridizione di Greimas”, si deduce
che dire la verità significa che ciò che si dichiara è realmente accaduto (ciò che è quel che sembra),
mentre mentire significa dire ciò che si crede non vero (ciò che non è ciò che sembra); si può,
inoltre, aggiungere che il segreto è “ciò che non sembra ciò che è” e la falsità è “ciò che non sembra
e non è”. Per chiarire con degli esempi, se un testimone accusa qualcuno di omicidio perché lo ha
visto accoltellare una persona, egli può essere sincero e dire la verità (l’omicidio è effettivamente
stato commesso dalla persona indicata), ma anche essere sincero e dire il falso (la persona, in realtà,
stava pugnalando un cadavere. Ergo, non ha commesso omicidio). Ma si può anche mentire dicendo
una cosa falsa (si assiste ad un furto e lo si nega), oppure mentire, ma dicendo una cosa vera (pur
avendo assistito al fatto, si nega che una persona abbia rubato un portafoglio, ma questo, in realtà,
era di proprietà della persona indicata) (De Cataldo Neuburger e Gulotta, 1996; Gulotta, 2000 e
2008).
È plausibile affermare che la persona che intende mentire non sia in grado di controllare tutto ciò
che accade nella sua mente e nel suo corpo durante l’interrogatorio, motivo per cui chi interroga
deve prestare la massima attenzione sia al canale verbale (ciò che il soggetto dice), sia al canale
comportamentale (il modo con cui lo dice), in modo da rilevare eventuali discrepanze che possano
far sospettare una menzogna (Lavorino, 2000). Infatti, gli studi in materia dimostrano che quando i
messaggi verbali e non verbali che una persona trasmette sono discordi in maniera contraddittoria,
tendenzialmente si considerano più affidabili quelli non verbali, in quanto più difficilmente
manipolabili (Rossi, Zappalà, 2005; Gulotta, De Cataldo, 1996). La menzogna, in ogni caso, dovrà,
poi, essere successivamente provata e verificata nel contraddittorio dell’interrogatorio.
Sono stati elaborati, nel corso degli anni, diversi sistemi, strumenti e indizi per rilevare le
menzogne, che si basano sull’analisi del contenuto dell’eloquio, sulle risposte fisiologiche e sulla
valutazione del comportamento non verbale.
Il contenuto verbale
L’analisi del contenuto verbale della comunicazione può fornire utili indicazioni per rivelare le
menzogne. Esistono delle scale di valutazione che sono state create proprio con questo scopo: la già
citata Statement validity assessment, una metodologia psicologica utilizzata per valutare la
credibilità delle dichiarazioni; il Reality monitorig, una tecnica usata analizzare i racconti e la
ricchezza dei dettagli che contengono; lo Scientific content analysis, che è una tecnica di analisi
scientifica del testo scritto, in grado di valutare se esso corrisponda alla verità oppure alla
menzogna; e il Verbal Inquiry Effective Witness, un questionario che viene utilizzato nelle indagini
verbali nei confronti dei testimoni, per verificare il grado di attendibilità e veridicità delle loro
dichiarazioni.
Ci sono anche dei test psicologici che possono offrire indicazioni utili per rilevare simulazioni e
menzogne: il Rorschach, il disegno della figura umana, il Dissimulation Index di Gough e il test
della Bender (Rossi, Zappalà, 2005).
Inoltre, dagli studi effettuati in materia, dagli anni Ottanta fino ai più recenti, emerge che le
dichiarazioni false sono solitamente più brevi di quelle vere, sono generiche, contengono pochi
riferimenti a persone, luoghi o tempi, tendono ad un uso generalizzato di termini generici (“tutto”,
“ogni”, “nessuno”, “niente”), contengono pochi riferimenti alla propria persona, sono più ricche
lessicalmente perché più ponderate. Per quel che riguarda il contenuto, si può dire che il racconto è
scarsamente plausibile, la produzione non è strutturata, c’è un basso numero di dettagli visivi,
uditivi, di spazio e di tempo (Reality Monitoring), l’intervistato sembra passivo, incerto, poco
coinvolto, non cooperativo, tendente a formulare molte frasi negative ed è possibile riscontrare
ambivalenza del soggetto verso il contenuto, (Rossi, Zappalà, Valentini, Monzani, 2005).
In più, la menzogna è anche indicata da (Gulotta, 2008):
- diminuzione: del numero di frasi in cui soggetto afferma di aver avuto la possibilità di commettere
reato, della qualità dei dettagli (batteria CBCA), della struttura logica (batteria CBCA), delle
operazioni cognitive (Reality Monitoring), della velocità dell’eloquio, del numero di frasi
pronunciate, della riproduzione di conversazione (batteria CBCA), dei dettagli uditivi (Reality
Monitoring)
- aumento: del tono di voce, del tono di voce lagnoso, del tempo di latenza, delle esitazioni
dell’eloquio, del numero di frasi brevi, della descrizione di scambi interattivi (batteria CBCA), delle
correzioni spontanee (batteria CBCA), dei dubbi circa la propria memoria (batteria CBCA), del
numero delle informazioni irrilevanti, del numero delle dichiarazioni negative, degli errori
nell’eloquio, del numero delle risposte indirette, del numero delle frasi con cui il soggetto prende
distanza dal reato, del livello di gentilezza e condiscendenza, del numero di termini evasivi.
Le risposte fisiologiche
Sicuramente lo strumento più conosciuto per rilevare le menzogne, analizzando le risposte
fisiologiche, è il poligrafo, o macchina della verità, uno strumento che registra i cambiamenti
fisiologici (frequenza del respiro, pressione arteriosa, battito cardiaco e sudorazione). Esso non
rileva direttamente la menzogna, ma solamente segni di alterazione neurovegetativa e cambiamenti
fisiologici prodotti in maniera principale dalle emozioni
Altri strumenti sono: il Voice stress analyzer, che rivela i cambiamenti della voce umana in
relazione ad una maggiore tensione delle corde vocali in corso di stress emotivo e che sono
compatibili con la menzogna; la Rilevazione termica del viso (effettuata con una speciale
telecamera che riprende le immagini termiche del viso), che si basa sull’evidenza che mentire
modifica la circolazione del sangue del viso, facendo affluire più sangue nelle zone perioculari, cosa
non rilevabile ad occhio nudo; e la P300, un software collegato ad elettrodi che analizza, tramite
algoritmi aritmetici, le memorie pregresse di un soggetto durante un interrogatorio.
Queste strumentazioni, tuttavia, sono poco utilizzate in ambito giudiziario ed i loro risultati, di
norma non vengono presentati nelle aule di tribunale, dove, peraltro, non sarebbero comunque
ammessi, poiché considerati troppo fallaci ed a rischio di “falsi positivi”, cioè possono segnalare
una menzogna anche quando si sta dicendo la verità, ma si è comunque emotivamente alterati per
altri motivi.
Il comportamento non verbale
L’analisi degli indizi non verbali e paralinguistici è un altro metodo per tentare di scoprire chi
mente. Per esempio, il Facial action coding system, ideato dallo psicologo Paul Ekman, è un
sistema che rivela i cambiamenti dell’espressione mimica in relazione a differenti contrazioni e
distensioni dei muscoli facciali, basandosi sugli studi che sostengono che esistono combinazioni
compatibili con la verità e combinazioni compatibili con la menzogna.
Riguardo ai segnali paralinguistici, si può notare che fu lo stesso Freud ad indicare che, talvolta, il
fenomeno del lapsus può essere indicatore di menzogna, mentre Jung sfruttò il metodo delle libere
associazioni nell’investigazione. Altri indicatori possono essere il tono di voce, l’accentuazione, il
ritmo del discorso e simili (Rossi, Zappalà, 2005).
Il comportamento non verbale, invece, comprende la mimica facciale e corporea, la direzione dello
sguardo, l’aspetto fisico, la postura, la gestualità, i movimenti del corpo. Esso esprime molto più
facilmente la “verità” interiore, poiché è impossibile scegliere arbitrariamente tutti i gesti che si
compiono, poiché questi vengono espressi in modo diretto, spontaneo ed involontario (Lavorino,
2000). È possibile, quindi, affermare che il comportamento non verbale “non mente” ed un
osservatore attento può, attraverso i gesti, decidere se le parole possono essere più o meno
attendibili (Gulotta, 2008, Rossi, Zappalà, 2005).
Sebbene i segnali indicanti che un soggetto sta mentendo varino da persona a persona, attraverso
recenti studi e molteplici ricerche, è stato possibile stilare una lista di quelli che sono gli indici di
menzogna, che si concretizzano in:
- diminuzione: dello sguardo verso l’interlocutore, dei movimenti delle mani e delle dita (se il
soggetto deve compiere uno sforzo cognitivo per mantenere la coerenza delle risposte), dei
movimenti di piedi e gambe (se i movimenti rallentano e si irrigidiscono perché le domande poste
sono sempre più specifiche e implicano un maggior impiego del canale cognitivi)
- aumento dei sorrisi, dei gesti di adattamento, dei toccamenti delle labbra, dei toccamenti del
colletto (eterosessuali), dei toccamenti delle dita (donne e omosessuali), della sudorazione delle
mani, dello stato di agitazione, dei movimenti delle mani e delle dita (se il soggetto è nervoso per la
paura di essere scoperto), dei movimenti di piedi e gambe (se individuo è teso e scarica la tensione
con il movimento di tali arti), dei movimenti delle braccia, dei movimenti del corpo (Gulotta, 2008).
Si deve anche sottolineare che le possibilità di smascherare una persona che sta mentendo
aumentano se è stato possibile esaminare anticipatamente il normale stile comunicativo sincero del
soggetto in questione. Per fare ciò, è possibile, eventualmente, porre una serie di “domande test” (la
cui risposta si sa per certo essere vera), al fine di avere un parametro di confronto (Lavorino, 2000).
Dalla teoria alla pratica
Si esaminerà, adesso, quale può essere, in concreto, la consulenza che lo psicologo può fornire
all’avvocato in sede di indagini difensive, in virtù della sua specifica preparazione e delle teorie di
riferimento, prendendo spunto da un caso reale.
1. Il caso
Il caso in oggetto ha luogo in una grande città del nord Italia. Si tratta di difendere un uomo
dall’accusa di presunto abuso sessuale nei confronti di minori.
La persona indagata è un uomo sposato, con tre figlie (due in età scolare e una molto piccola) ed è
molto conosciuto nella sua città, dove è assiduo frequentatore degli ambienti artistici. Questa
persona ha un carattere molto particolare. Viene descritto, da tutti coloro che lo conoscono, come
estremista e provocatore, a tal punto da suscitare l’insorgere di polemiche in diverse occasioni.
Un’altra delle sue caratteristiche è la particolare concezione, molto aperta, che ha della famiglia.
Infatti, frequenta assiduamente diversi amici e conoscenti con le rispettive famiglie, tutte persone
che appartengono al suo ambiente lavorativo, al punto tale da creare un vero e proprio “clan”, che
racchiude il suo e tutti questi altri nuclei familiari.
L’organizzazione di questa “famiglia allargata” è caratterizzata da continue frequentazioni
reciproche, dalla partecipazione ad eventi più o meno mondani e dall’organizzazione di varie feste e
gite tutti insieme. Anche gli altri nuclei sono composti da coppie con figli di età simile alle figlie del
presunto abusante, tant’è che, sovente, tutti i bambini si ritrovavano per giocare o fare il bagno tutti
insieme, sempre, però, sotto la responsabilità di un adulto. A questo gruppo di ragazzini, spesso, si
aggregavano le compagne di scuola della primogenita dell’uomo e in molte occasioni era proprio
quest’ultimo ad occuparsi della sorveglianza dei bambini, giocando sempre con loro e, come
modalità di relazione, prediligeva il contatto fisico. Quindi, li prendeva in braccio, giocavano a far
la lotta, li abbracciava, ecc. Insomma, dimostrava un comportamento e degli atteggiamenti molto
simili e in sintonia con quelli dei bambini, a tal punto che, spesso, egli stesso veniva definito dai
conoscenti come “un bambinone”. Anche durante lo svolgimento delle feste, l’uomo passava
parecchio tempo in compagnia dei piccini, divertendosi con loro.
Tutta la vicenda ha inizio fra il 2004 e il 2005. Le compagne di scuola della primogenita dell’uomo
che frequentavano la sua casa, avevano conosciuto anche tutti gli altri bambini figli degli amici di
famiglia, ma non facevano parte del “clan” di cui si è parlato prima. Appartenevano, cioè, ad un
mondo e ad una cultura diversi.
Accadde che, un giorno, una di queste bambine, raccontando ai genitori le attività di gioco fatte a
casa dell’amica, narrò che avevano fatto il bagno tutti insieme e parlò anche di alcuni “toccamenti”,
da parte del papà dell’amichetta. La madre, preoccupata, ne parlò con delle amiche e tutte insieme
si recarono in un centro specializzato per l’abuso e il maltrattamento dei minori, dove le operatrici
dissero loro che era probabile che la bimba avesse frainteso la situazione, poiché conoscevano la
famiglia in questione e ne conoscevano le abitudini molto “aperte”. In parte tranquillizzata da ciò, la
signora decise di non intraprendere nessuna azione legale, ma preferì diminuire la frequenza delle
frequentazioni della figlia a casa della compagna di scuola, cercando, inoltre, di fare in modo che,
nelle occasioni di incontro, ci fosse sempre anche un altro adulto presente, oltre all’uomo. La
vicenda sembrava chiusa qui.
Tuttavia, nel marzo 2007, la primogenita dell’indagato cambiò scuola, cambiando, di conseguenza,
compagni e giro di amicizie. Le vecchie compagne, però, la ricordavano ancora e un giorno, durante
l’intervallo, parlando con una maestra, cominciarono a raccontare, dei tempi trascorsi a casa
dell’amica, tirando nuovamente in ballo i famosi “toccamenti”, ad opera del papà della ragazzina,
che sarebbero accaduti mentre giocavano, studiavano o dormivano. A questo punto, la maestra fu
costretta denunciare il fatto.
Si deve aggiungere, inoltre, che molte delle coppie del “clan”, più o meno nello stesso periodo,
divorziarono o si separarono, e i genitori rimasti soli cominciarono a frequentare dei nuovi partner,
che però erano esterni a quell’ambiente e non ne condividevano il particolare stile di vita.
La strategia delle indagini difensive
La strategia difensiva attuata, era improntata sul cercare di ricostruire l’ambiente familiare
dell’imputato, le sue attività, il suo carattere e il suo modo di relazionarsi con gli altri, sia bambini
che adulti, al fine di ridimensionare i fatti in oggetto.
L’ipotesi di fondo era che l’accusa fosse nata sia dal fraintendimento degli atteggiamenti dell’uomo,
generatosi a causa dei diversi ambienti culturali di provenienza delle persone implicate nella
vicenda, sia dai pettegolezzi che ruotavano intorno alla sua figura. In particolare, le persone che
erano entrate in contatto con il “clan” (i nuovi partner) nell’ultimo periodo, sostenevano di aver
sempre avuto il sospetto che l’uomo avesse delle tendenze pedofile, a causa del fatto che, in
occasione degli incontri e delle feste, trascorreva gran parte del tempo con i bambini, e a causa del
suo modo di comportarsi con loro (contatto fisico, ecc).
In più, il suo atteggiamento, molto “aperto”, poteva aver generato delle confusioni, poiché si
discostava molto dal modo di comportarsi degli altri adulti, appartenenti e non, al “clan”.
Il ruolo dello psicologo
La strategia della linea di difesa può essere illustrata sfruttando alcune teorie psicologiche di
riferimento. Diverse ricerche mostrano come i pregiudizi nascano facilmente e creino le condizioni
per una loro realizzazione. Ad esempio, G. W. Allport, nel 1954, pubblicò un ampio volume dal
titolo “La natura del pregiudizio”, nel quale esaminò il problema, fornendo una delle opere più
complete sull’argomento. Una delle conclusioni a cui lo studioso giunse, implica che il gruppo
dominante di una società spesso ha delle idee stereotipate riguardo ad una porzione minore della
popolazione e si comporta di conseguenza. Inoltre, facendo riferimento alle teorie di Watzlavick
(1976), si evince che è possibile considerare la realtà in due modi: la realtà fenomenica, che
riguarda la realtà delle cose e delle persone suscettibile di convalida sperimentale, ripetibile,
verificabile e confutabile; e la realtà sociale, che riguarda i giudizi valutativi che attengono alle
persone e ai rapporti tra di esse. I meccanismi cerebrali (per esempio, conformità, suggestione,
identificazione, reciprocità, contrasto percettivo, pregiudizio, ecc.) se, da un lato, facilitano
l’interazione sociale, dall’altro filtrano il giudizio e creano il fraintendimento verso i comportamenti
nostri e altrui, falsificando, modificando e creando ex novo i segnali da cui si traggono le inferenze
(Rossi, 2005). Infatti, da diversi studi, emerge che l’interpretazione del mondo è diversa per
ognuno, poiché ogni individuo legge e spiega la realtà secondo schemi personali (De Cataldo,
Gulotta, 1996).
Nel caso in esame, l’incarico dato al consulente psicologo fu quello di osservare e indagare
l’ambiente in cui ebbe luogo la vicenda. A tal fine, interrogò due persone molto vicine alla famiglia
dell’imputato e che lo conoscevano a fondo da molti anni. Lo scopo di queste testomonianze fu
quello di raccogliere informazioni relative al contesto in cui viveva l’uomo; descriverne il carattere,
gli atteggiamenti, le abitudini e i modi di fare; capire l’origine delle accuse nei suoi confronti e
permettere di effettuare un confronto fra gli stili di vita delle persone dentro e fuori al “clan”.
La prima persona che venne sentita fu un’amica di lunga data dell’indagato. Ella lo descrisse in
maniera molto caratteristica, specificando che, anche a causa della sua passione verso il mondo
dell’arte, egli fosse, da sempre, attratto “dal bello”e che questa passione si traducesse, spesso, in
apprezzamenti anche nei confronti di giovani adolescenti, tant’è che, sovente, ci scherzavano sopra
(“Guarda che se continui così, penseranno che sei un pedofilo!”). Quando si trattò di approfondire
le circostanze di accusa, la signora confermò il fatto che questa persona, effettivamente, giocasse
molto spesso con i bambini e si relazionasse a loro usando molto la dinamica del contatto fisico, ma
che il tutto era assolutamente innocente, poiché era una caratteristica tipica del suo carattere e i
giochi si svolgevano sempre sotto gli occhi di tutti, non in luoghi appartati o nascosti. Spiegò,
inoltre, come nacque il “contagio” di idee e sospetti nei confronti dell’uomo. Fu in grado di farlo
poiché, non solo conosceva profondamente lui, ma frequentava anche le persone che avevano fatto
partire la denuncia. La sua idea era che il fraintendimento fosse nato a causa del comportamento
molto esuberante dell’uomo, che contrastava con i comportamenti e i modi di fare a cui erano
abituate le altre persone. Inoltre, permise di ridimensionare anche alcuni fatti, poiché presente ad
essi. Ad esempio, non era vero che i bambini fecero il bagno completamente nudi. Semplicemente,
essendo estate, faceva molto caldo, e i ragazzini si tolsero le magliette per giocare più liberamente.
Il secondo teste interrogato dal consulente della difesa era un’altra amica storica dell’assistito. Lei
raccontò le origini del “clan”. Alla nascita della primogenita dell’uomo, anche le altre coppie di
amici cominciarono ad avere bambini e, per esigenze di lavoro, cominciarono a ritrovarsi e
guardarsi i figli a vicenda. Da qui, vista la concezione molto liberale e aperta dell’uomo verso la
famiglia (che comunque teneva sempre nella più grande considerazione e rispetto), la nascita del
“clan” fu quasi automatica, anche perché i membri appartenevano tutti allo stesso ambiente e alla
stessa cultura. Le cose cominciarono a cambiare intorno al 2003, quando avvennero le prime
separazioni e i primi divorzi fra i membri del “clan”, con il conseguente ingresso nel gruppo di
persone “estranee”.
Per cui, mentre il lavoro dell’avvocato si indirizzò maggiormente sui fatti, le indagini dello
psicologo si concentrarono sulle testimonianze e permisero di:
- delineare gli aspetti del carattere e dei comportamenti dell’indagato;
- capire quali potessero essere i risvolti psicologici del comportamento dell’uomo e le reazioni
ad esso;
- capire il modo di ragionare e di guardare la realtà delle persone esterne al “clan”;
- evidenziare il pregiudizio delle persone;
- proporre indagini allargate ai diversi contesti di riferimento e scandagliarne le diverse
culture;
- effettuare un confronto fra i due diversi ambienti di appartenenza delle perone implicate nei
fatti;
- indagare il fenomeno sociale che c’era dietro, confrontando l’ambiente familiare più
“alternativo” da un lato e l’ambiente familiare più “tradizionale” dall’altro,
- capire se le persone, che vivevano una determinata situazione, fossero a conoscenza anche
dell’altra realtà;
- dimostrare che non si trattò di menzogna vera e propria, ma di una diversa lettura della
realtà, che portò a dichiarare quello che si pensò fosse accaduto, visto con le lenti della
cultura di riferimento;
- chiarire le dinamiche del “contagio” rispetto alle voci sul presunto abuso;
- trovare possibili spiegazioni alternative alla denuncia, legate al clima di paura, timori e
sospetto che si respirava in quel periodo, alla luce dei contemporanei fatti di cronaca;
- spostare l’attenzione non tanto sul fatto in sé, quanto sul contesto in cui il fatto si inseriva;
- ricontestualizzare tutta la vicenda.
Conclusione
Il presente lavoro ha mostrato che l’introduzione nel nostro ordinamento, dell’articolo 7 della legge
n° 397/2000, oltre a sancire l’ingresso delle indagini nel lavoro della difesa, offrendo un quadro
normativo di riferimento, modifica le competenze in capo ai consulenti tecnici delle parti private,
attribuendo loro la possibilità di intervenire direttamente e attivamente nella fase delle indagini. Il
consulente psicologo, quindi, ha dinnanzi a sé nuove opportunità, che prevedono una preparazione
teorica e tecnica in linea con i compiti che la legge gli affida.
Dalla letteratura di riferimento, inoltre, si evince che la psicologia ha diverse possibilità di
intervenire e di contribuire negli aspetti pratici dell’investigazione. Tanto per citare qualche
esempio, si può pensare alla decodificazione delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, o alle
controversie generate dalla problematica interpretazione delle dichiarazioni di minorenni in casi di
violenze sessuali. In questi casi, è evidente che una preparazione tradizionale, di tipo strettamente
giuridico, non sarebbe, da sola, sufficiente; mentre sarebbe ragguardevole un’adeguata preparazione
nelle discipline e tecniche psicologiche.
Partendo da questo presupposto, è stato esaminato uno fra i maggiori contributi che la ricerca
psicologica e gli studi sulla comunicazione hanno fornito al diritto e alle investigazioni, cioè la
psicologia della testimonianza.
Nell’ambito dell’acquisizione di informazioni, infatti, è necessario considerare tutti quei processi
psicologici inerenti all’elaborazione, al mantenimento e al recupero di un ricordo, nonché i possibili
errori a cui può andare incontro un individuo nella rievocazione degli eventi. Infatti, ciò che un teste
ricorda, non è solamente la descrizione dell’evento a cui ha assistito, ma è piuttosto
l’interpretazione che il soggetto ha dato all’evento al momento della codifica. Inoltre, l’esistenza di
messaggi non verbali, la possibile contraddittorietà tra parole, sentimenti e atteggiamenti, le
patologie della comunicazione, sono tutti elementi che ridimensionano e influenzano la certezza
della prova testimoniale. Oltre a ciò, gli studi del settore dimostrano che la deposizione di un teste,
che crede di essere sincero, non necessariamente corrisponde a verità, poiché sono molti i fattori
che possono, talora, interferire sul suo ricordo e fargli riferire circostanze che egli reputa vere,
mentre non lo sono.
Chi ascolta una deposizione, di conseguenza, deve avere la consapevolezza non solo di questo
meccanismo automatico di interpretazione, che fa sì che il racconto del testimone sia influenzato,
oltre che da ciò che ha visto, anche da conoscenze e convinzioni precedenti all’evento, ma anche di
tutti quei meccanismi, di cui si è parlato, che influiscono sulle varie fasi della memoria e della
rievocazione. Avere coscienza di ciò permette di sviluppare delle strategie, che costituiscono le basi
per le moderne tecniche di intervista, per acquisire le informazioni dal testimone.
Non va sottovalutata, inoltre, l’importanza dell’aspetto relazionale, inteso come l’insieme di quei
fattori che facilitano la comunicazione e, quindi, l’espressione dei contenuti. L’esperto che
raccoglie una testimonianza deve essere in grado di instaurare una relazione positiva con il
testimone, facendolo sentire a proprio agio e favorendo una partecipazione attiva ed un ascolto
empatico, sia che si tratta di adulti, sia che, a maggior ragione, si tratta di minori.
Considerando tutti questi fattori, è stato evidenziato il ruolo e sono state specificate le capacità che
il consulente tecnico psicologo possiede e che possono costituire un indispensabile ausilio al lavoro
investigativo della difesa.
In conclusione, per dimostrare questa tesi, è stato presentato un caso pratico in cui il ruolo
dell’esperto si è rivelato determinante per la difesa dell’ assistito.
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